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I due articoli di Einstein che cambiarono la fisica per sempre

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Fu una corsa a perdifiato, per nulla frenata da atroci dolori allo stomaco, quella che Albert Einstein intraprese tra l’estate e l’autunno prima di andare, il 25 novembre 1915, all’Accademia di Prussia e tenere la prima di una serie di quattro conferenze con cui rendeva pubblica la sua teoria della relatività generale: «la più bella teoria della fisica», come scrive Vincenzo Barone nell’introduzione a Le due relatività (Bollati Boringhieri, 2015, pp. 94; euro 12,00). 

Fu una corsa a perdifiato, per arrivare primo e battere un pericoloso concorrente: David Hilbert, il più grande matematico vivente. E sì che erano almeno otto anni che Einstein aveva l’idea, ma non la formula. Che aveva l’immagine, ma non la matematica per tradurla nel linguaggio scientifico dei fisici. La via giusta Albert Einstein l’aveva trovata tre anni prima, nell’estate 1912, quando l’amico Marcel Grossmann, matematico del Politecnico di Zurigo, lo introdusse al calcolo differenziale assoluto “inventato” anni prima  da Gregorio Ricci-Curbastro e poi sviluppato dallo stesso Ricci con Tullio Levi Civita. Einstein se ne era convinto: era proprio la strada giusta, quella dell’analisi tensoriale dei due italiani. Ma il tragitto si rivelò piuttosto difficoltoso. A metà del 1915 la “via italiana” era stata percorsa per un lungo tratto, con risultati promettenti. Eppure il traguardo appariva ancora lontano. 

La competizione con l’amico Hilbert

Della sua idea fisica, dei suoi sviluppi e delle difficoltà a ridurla a una formula  Albert Einstein aveva parlato con David Hilbert, grande matematico – il più grande tra i viventi –, oltre che pacifista convinto e suo caro amico. Tra i due nasce, tuttavia, un po’di tensione, perché Hilbert dichiara di voler tentare in prima persona a risolvere il problema fisico della relatività generale per via puramente matematica. 

Detto per inciso: Hilbert riconosceva all’amico Albert la priorità della idea fisica (la relatività generale è di Einstein), ma si riservava il diritto di cercare di formalizzarla, quella splendida idea. Ma Einstein iniziò a temere proprio questo: che Hilbert arrivasse primo a elaborare il formalismo e diventasse il “padre” della “sua” relatività generale. I timori erano fondati. Perché non c’era dubbio alcuno: il matematico aveva tutte le capacità di realizzare l’impresa in tempi brevi.

Così Einstein decise di accelerare il suo lavoro. Ancora una volta  era solo, con i suoi atroci dolori allo stomaco. Ma ancora una volta vide giusto: continuò a puntare le sue fiches sui tensori di Ricci. Al contrario di Hilbert, che seguì vie matematiche diverse dal calcolo differenziale assoluto. 

Furono settimane di lavoro sfiancanti: una corsa a perdifiato, appunto. Ma infine, il 25 novembre 1915, Albert Einstein entrò trionfante nell’aula dell’Accademia delle Scienze di Prussia per iniziare a illustrare la prima delle quattro memorie che completavano la teoria della relatività ristretta e annunciavano nella sua versione formalmente corretta la relatività generale: la più bella teoria della fisica.

Planck saltò sulla sedia a leggere quegli articoli

Già, tutto era iniziato dieci anni prima, nel 1905, quando un giovane “esperto tecnico di terza classe” dell’Ufficio Brevetti di Berna – Albert Einstein di anni 26 – inviò un primo e poi un secondo articolo agli Annalen der Physik, la più prestigiosa rivista di fisica del tempo, edita a Berlino, la cui sezione teorica era diretta da Max Planck, il più noto fisico del tempo, l’uomo che nel 1900 aveva scoperto il “quanto elementare d’azione” e inaugurato, suo malgrado, la più grande rivoluzione in fisica dai tempi di Galileo e Newton: la rivoluzione quantistica.

Planck era persona rigorosa. E intellettualmente onesta. Non cestinò gli articoli del giovane e sconosciuto e ardito e prolifico impiegato. Un ragazzo che, in pochi mesi ne aveva inviato ben cinque articoli a Berlino, divisi in tre gruppi di interesse. In uno affrontava il tema del “moto browniano” e rilanciava il modello atomico della materia. In un secondo affrontava il tema dell’effetto fotoelettrico e sosteneva l’esistenza di “quanti di luce” (oggi li chiamiamo fotoni) che hanno la doppia, ambigua e inaudita natura di onda e di corpuscolo. Nei due articoli del terzo gruppo affrontava il tema dell’elettrodinamica di corpi in movimento e proponeva una nuova teoria, oggi nota come “relatività ristretta”. 

Questi due articoli – che sono stati tradotti e pubblicati in Le due relatività e sono leggibili anche da chi non è un fisico di professione e ha una conoscenza matematica da liceo scientifico – riguardavano una nuova teoria del moto e contenevano alcune affermazioni da far saltare sulla sedia ogni fisico, ogni uomo di scienza e ogni filosofo. Vincenzo  Barone, nella sua prefazione, le ha ben delineate. Le possiamo condensare in tre proposizioni: a) la velocità della luce è costante, indipendente dall’osservatore e invalicabile; b) non esistono il tempo e lo spazio assoluto, che dipendono invece dall’osservatore; di più, spazio e tempo sono forme diverse di una medesima entità che sarà chiamata spaziotempo; c) materia ed energia sono espressioni diverse ma interscambiabili di un’unica entità fisica: la materia energia, come Einstein esprime con elegante sintesi nella formula destinata a diventare la più celebre di ogni tempo: E = m c2.

Planck saltò sulla sedia. Ma riconobbe che gli articoli contenevano fisica solida. E così il gran conservatore fu costretto, dalla sua limpida onestà intellettuale, ad accompagnare suo malgrado una seconda rivoluzione. Gli articoli furono pubblicati e, grazie all’esplicito appoggio di Planck, il giovane Einstein entrò anche ufficialmente nella comunità accademica.

“Il pensiero più felice della mia vita”

Tuttavia la “relatività ristretta” aveva un limite: non riguardava tutti i corpi in moto, ma solo i corpi inerziali, ovvero quelli che sono in quiete o si muovono a velocità uniforme, senza accelerazione. Il giovane Albert non era tipo da dormire sugli allori. E fece il passo successivo: cercare una nuova teoria, la più generale possibile, che includesse anche il moto dei corpi  sottoposti ad accelerazione e ad attrazione gravitazionale.

Così, nel 1907, ebbe quello che lui stesso definì il «pensiero più felice della mia vita»: il principio di equivalenza. C’è una perfetta equivalenza tra un corpo sottoposto a  una forza che ne accelera il moto e un corpo sottoposto a una forza gravitazionale. C’è perfetta equivalenza tra accelerazione e gravità.

Mancava qualche dettaglio, ma il principio di equivalenza costituiva l’ossatura di quella teoria più generale che Einstein “doveva” cercare: l’ossatura della teoria della relatività generale. Il fatto è che al giovane mancava la matematica per tradurre in una formula quell’intuizione. E ben presto Einstein si rese conto che non bastava la matematica tutto sommato semplice usata nella definizione della relatività ristretta. C’era bisogno di nuova matematica. E lui era un fisico creativo – lo potremmo considerare il più grande di ogni tempo anche solo sulla base dei tre razzi fiammeggianti (la definizione è di Louis de Broglie) lanciati nel 1905 – ma non un matematico creativo. Non sapeva inventare nuova matematica. Tanto meno la matematica complessa di cui aveva bisogno per descrivere il campo gravitazionale.

È per questo che, cinque anni dopo aver avuto “il pensiero più felice della sua via” e non essere riuscito a formalizzarlo, all’inizio di agosto 1912 entrò nella stanza dell’amico Grossmann e gridò: «Aiutami, sennò divento pazzo!».

Il resto lo abbiamo raccontato. Grossmann indicò la strada, lo aiutò a percorrerla per un tratto, ma tre anno dopo Einstein era ancora in mezzo al guado. Fu la sfida di Hilbert a indurlo a un lavoro matto e disperato che in poche settimane glielo fece tagliare, il traguardo.  A dimostrazione che la fisica (la  scienza) è umana, molto umana.

La fisica ridotta a geometria

La seconda parte di Le due relatività contiene l’articolo I fondamenti della teoria della relatività generale che Einstein pubblicò nel maggio 1916, grazie alla quale (cento anni fa) quella fatica matta e disperata è entrata nella letteratura scientifica  e nella storia della fisica. 

Diciamo subito che, a differenza delle memorie del 1905, questo articolo non è accessibile a chi non sa di fisica e di matematica. Per fortuna Vincenzo Barone, in poche, densissime ma chiare pagine, ce ne offre la sintesi concettuale. Conviene leggerla. Noi possiamo qui sintetizzare il tutto con una frase di John Archibald Wheeler, riportata da Vincenzo Barone: «La materia dice allo spazio-tempo come curvarsi; lo spazio-tempo dice alla materia come muoversi». La frase ci dice che Einstein ha ridotto la gravità a geometria, con un’operazione che dà ragione a Galileo e a Cartesio. 

Pare di sentirlo, Galileo, mentre legge l’articolo del 1916 e ribadisce quanto aveva scritto ne Il Saggiatore :

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

Pare di vederlo, René Descartes, mentre abbraccia Einstein riconoscendo che qualcuno ha finalmente dimostrato quanto lui aveva sempre predicato: la  fisica può (deve) essere ridotta a geometria. Forse Einstein immagina gli onori che gli avrebbero riservato Galileo, Descartes e forse lo stesso Newton e, come ricorda Vincenzo Barone, scrive al suo amico di penna, l’ingegnere triestino Michele Besso: «Sono felice, ma un po’ distrutto».   

Nel 1919 un astronomo inglese, sir Arthur Eddington, osservò una delle previsioni della relatività generale di Einstein: la luce viene deviata da una massa gravitazionale. E da quel momento l’autore della teoria diventa, per dirla con Abraham Pais, «l’improvvisamente famoso dottor Einstein». Un mito. L’icona della scienza e di un secolo.

Non per questo era appagato. Vent’anni dopo scriverà che quella formula così faticosamente redatta è costituita solo per metà di marmo pregiato (la parte che descrive il campo gravitazionale) ma l’altra metà (la parte che descrive la materia) è legno scadente. Dopo il 1916, spenderà i restanti 40 anni di vita per cercare di trasformare il legno in marmo. Non ci riuscirà. Ma certo non sarebbe contento di sapere che, ancora oggi, nessuno c’è riuscito.

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