Le meduse, sempre più numerose nei nostri bacini, non comportano soltanto una minaccia per la salute dei bagnanti, ma rappresentano anche un sintomo preoccupante dello stato di sofferenza della biodiversità marina. La loro proliferazione è infatti una diretta conseguenza della diminuzione dei pesci.
Ferdinando Boero, professore di biologia marina presso l'Università del Salento e ricercatore dell'Istituto di scienze marine (Ismar) del Cnr, è uno dei massimi esperti di questi animali gelatinosi. Della sua lunga carriera di scienziato ricorda con piacere quando, giovane ricercatore, scoprì in California una nuova specie e la dedicò al musicista Frank Zappa. Era soltanto un pretesto per poter conoscere di persona il suo idolo, il quale apprezzò molto la dedica di Phialella Zappai e ricambiò il favore, battezzando una sua canzone con il nome del biologo: “Lonesome Cowboy Nando”.
L'amicizia di Boero con Zappa durò fino alla prematura scomparsa del musicista. La sua passione per le meduse e il mare prosegue tutt'ora. Ogni giorno Boero riceve numerose segnalazioni di avvistamenti e tiene aggiornato il suo speciale “meteo meduse”. “È soltanto la partecipazione dal basso dei cittadini – sottolinea – a rendere possibile il monitoraggio degli oltre 8.500 chilometri di coste italiane. È come se potessimo contare su tanti sensori distribuiti per tutta la penisola: difficile disporre di uno strumento più efficiente per ottenere un censimento di questi animali”.
In base alle segnalazioni ricevute, quali risultano le specie più diffuse nei nostri mari?
Ogni anno è una storia a sé. Quest'anno ci sono stati segnalati diversi spiaggiamenti di Velella, che hanno colorato di blu le spiagge della Liguria e della Toscana, formando chiazze lunghe fino a qualche chilometro. Sempre nel Mar Ligure e nel Tirreno è stata avvistata anche Pelagia, che normalmente vive nei canyon sottomarini, ma che può risalire sfruttando le correnti ascensionali che vengono dal mare profondo. Nell'Adriatico invece abbiamo registrato una prevalenza di Aurelia.
Si tratta di specie dannose per gli esseri umani?
Velella e Aurelia sono innocue, Pelagia invece è piuttosto urticante.
Ma qual è la specie più temibile?
La più pericolosa è Physalia, denominata anche Caravella Portoghese, che entra nel Mediterraneo dallo stretto di Gibilterra ed è quindi più diffusa nei bacini occidentali, mentre è assente in Adriatico. C'è sempre stata, ma oggi è più presente e ogni anno si registrano casi di bagnanti ricoverati a causa delle punture di questa specie. Nel 2010 c'è stato anche un caso di decesso, l'unico in Italia, probabilmente dovuto a choc anafilattico. Dicendo questo, però, non vorrei che passasse il messaggio che entrare in acqua è diventato pericoloso. Basti pensare che ogni anno c'è gente che muore per le punture di calabrone.
Teme di creare allarmismo?
Temo solo di crearlo per le ragioni sbagliate. L'aumento delle meduse su scala globale dovrebbe allarmarci per un altro motivo: si tratta di un segnale chiaro e inequivocabile che il pesce sta finendo, per effetto della pesca eccessiva. Questo sì che è un rischio da prendere seriamente in considerazione. Non lo dico tanto per l'ambiente, quanto per l'essere umano: quando il pesce sarà finito, verrà meno anche un'attività economica fondamentale come la pesca.
Ci spiegherebbe in che modo il destino dei pesci è legato a quello delle meduse?
In primo luogo le meduse sono in competizione con i pesci per il cibo. Allo stadio di larve i pesci mangiano il plancton, di cui si nutrono anche le meduse. Quando i pesci diminuiscono, le meduse hanno meno competitori e quindi aumentano di numero. In secondo luogo, le meduse sono anche predatrici dei pesci, perché ne mangiano sia le uova sia le larve. Insomma si instaura una sorta di circolo vizioso.
E cosa si può fare per invertire questa tendenza?
Bisognerebbe pescare in modo più responsabile. In Europa già esistono leggi che regolamentano le taglie dei pesci da pescare, i periodi di pesca e gli strumenti da utilizzare. Il problema è che è difficile farle rispettare. C'è un alto tasso di illegalità e quindi chi vuole seguire le regole si trova svantaggiato. Ad esempio si dovrebbe evitare di catturare esemplari giovani, per permettere loro di crescere e riprodursi. Ma il mercato penalizza l'atteggiamento responsabile e allora a prevalere è la logica del “se non lo prendo io, lo prende qualcun altro”.
Il rapporto Fao The State of World Fisheries and Aquaculture 2010 evidenzia un incremento costante nella produzione da acquacoltura: dagli 0,7 kg pro capite del 1970 ai 7,8 del 2008. Allevare pesci può rappresentare una soluzione al depauperamento dei mari?
Assolutamente no. Il fatto che stiamo passando all'acquacoltura significa semplicemente che le popolazioni naturali di pesci sono state talmente sfruttate che non riescono più a rispondere alle nostre necessità. A essere allevate sono quelle specie che ormai scarseggiano in natura, ovvero i grandi carnivori: orate, spigole, branzini, ora persino i tonni. Ma per mantenere questi animali siamo costretti a nutrirli con farina di pesce, ricavata a sua volta da specie più piccole e più abbondanti. È una pratica folle, un po' come se allevassimo tigri e leoni e dessimo loro da mangiare mucche. Ovviamente il rapporto tra tonnellate sottratte al mare e tonnellate prodotte non è vantaggioso.
E se invece di grandi predatori allevassimo il corrispettivo delle mucche, ovvero specie erbivore?
In tal caso il discorso cambierebbe. Se allevassimo molluschi, come le cozze, e tipi di pesce meno impattanti, l'acquacoltura sarebbe una pratica del tutto sostenibile.
E allora perché non lo facciamo?
Perché siamo viziati e non vogliamo cambiare le nostre abitudini alimentari. Il pesce erbivoro per eccellenza è la salpa, ma nessuno lo alleva, perché ha poco valore sul mercato. Per trarre profitto dall'allevamento dei pesci, compensando gli alti costi che comporta, conviene allevare specie che si vendono bene. E purtroppo ad avere mercato sono soprattutto le specie carnivore.
Insomma una questione di gusti?
Più che altro una carenza di educazione alimentare. In Italia stiamo usando male le risorse che i nostri mari ci mettono a disposizione. Il Mediterraneo è ricco di moltissime specie di pesce commestibili, ma noi ne mangiamo soltanto alcune, sempre più difficili da trovare allo stato selvatico. Altre, che pure sono oggetto di pesca, come le acciughe, le sardine e gli sgombri, restano invendute. L'adozione di modelli di consumo più corretti ci permetterebbe di gestire in maniera più avveduta e responsabile le risorse tipiche dei nostri mari.