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Innovazione: perché non facciamo come l'Imperial?

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Translation & Innovation Hub (I-HUB) dell'Imperial College di Londra.

Duecentoventicinque addetti in tutti gli Uffici di trasferimento tecnologico delle università italiane, che salgono a 280 se comprendiamo gli IRCCS e i centri di ricerca. Detto così sembra un’inezia. Eppure secondo l’associazione Netval, che ha pubblicato nei giorni scorsi il suo XIV Rapporto sul trasferimento tecnologico, c’è motivo di essere moderatamente soddisfatti.

Uffici brevetti crescono

Secondo i dati del rapporto, 56 università hanno un ufficio che si occupa di brevetti, licenze e spin-off, 23 dei quali costituiti fra il 2004 e il 2006. E anche se i 225 pionieri che si occupano di valorizzare la ricerca dei centri di ricerca quasi totalmente pubblici sono ancora una piccola frazione rispetto alle controparti di altri Paesi, si assiste negli ultimi anni a un miglioramento graduale in quasi tutti i parametri del trasferimento tecnologico. Segno di un clima che sta cambiando e che orienta anche la nostra accademia a qualche timida apertura al mondo del business e del rapporto con l’impresa. Il numero medio di addetti per università è passato da 3,8 a 4,2 dal 2015 al 2016 (ultimo anno considerato nel rapporto), con un massimo di circa 10 addetti nelle 5 università di punta, quasi tutte situate nel nord del Paese. Nel portafoglio delle 56 università considerate i brevetti sono 3.917, di cui nell’ultimo anno 278 brevetti ottenuti (sulla situazione italiana nel campo brevetti leggi qui).

L’intero sistema delle università italiane spende 8 milioni di euro per questi uffici che dovrebbero costituire un ponte fra il mondo della ricerca e quello del mercato e dell’industria. Certo, se lo raffrontiamo al fondo ordinario per le università, pari a circa 5,5 miliardi di euro, è davvero niente, considerando che la valorizzazione della ricerca costituirebbe il cuore della terza missione. In media ogni università spende 240 mila euro per la protezione della proprietà intellettuale (contro i 53 dell’anno precedente).

Mille spin-off

L’altro grande capitolo degli uffici TT è l’avvio di spin-off, considerati dagli stessi addetti degli uffici ancora più strategici dei brevetti. Alla fine del 2017, il numero delle piccole imprese germinate in un terreno accademico era 1.373, con un buon tasso di sopravvivenza. “Sono evidenti i casi di università che hanno puntato molto sulle imprese spin-off, in tempi diversi, come il Politecnico di Torino (le cui spin-off rappresentano circa il 6% del totale nazionale), l’Università di Genova (3,7%), Padova e Scuola Sant’Anna (3,5%) e Firenze, Pisa e Tor Vergata (3,1%), e infine il Politecnico di Milano (3,0%). Negli IRCCS la situazione è leggermente diversa: da 6 imprese spin-off costituite nel 2014, si è passati a 12 spin-off costituite nel 2016, la maggiore provenienza degli spin-off deriva dagli IRCCS pubblici, spiega il rapporto Netval.

Le funzioni principali degli Uffici di Trasferimento tecnologico (UTT). Fonte: Rapporto Netval.

Esempio Imperial College

Negli ultimi anni l’associazione ha compiuto una serie di viaggi di studio - da Israele al Regno Unito, dove la delegazione italiana ha potuto rendersi conto di cosa potrebbe significare investire davvero nella valorizzazione economica della ricerca. A parte il caso irriproducibile della società israeliana, colpisce l’esempio dell’Imperial College di Londra, che ha dato vita all'Imperial innovations, società che gestisce l’innovazione per conto dell'ateneo londinese con più di 250 brevetti negli ultimi anni, un investimento corrente di 250 milioni di sterline e numerosi spin-out all'attivo (non parlano mai di spin-off...). L'esempio è stato seguito più recentemente da Cambridge, Oxford e University College.

Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno - come si impone di fare il presidente di Netval Andrea Piccaluga della Scuola Superiore sant’Anna in una intervista all’inserto Nova di Sole24ore (vedi allegato) - ora che tutte le università hanno un Ufficio di trasferimento tecnologico si potrebbe avviare la fase 2, che passa attraverso la collaborazione di più centri e atenei, con la sperimentazione di forme societarie specializzate nell’economia e marketing della ricerca. Abbiamo già riferito su Scienza in Rete della nascita della Fondazione per l’innovazione delle Università di Bergamo, Pavia e Milano-Bicocca (leggi qui), a cui si aggiungono le sperimentazioni di Trento, Bologna e Padova.

Dieci proposte per la fase 2

La fase 2 richiede però alcune piccole riforme per consentire al nostro sistema di valorizzare la conoscenza generata dai propri ricercatori. Eccole in sintesi:

  • Modificare l’articolo 65 del codice della proprietà industriale (leggi qui), che vede in Italia riconoscere ai ricercatori la proprietà esclusiva delle invenzioni, contrariamente a quanto avviene altrove.
  • Finanziare adeguatamente anche le “proof of concept”, cioè la fase che precede la richiesta del brevetto, cosa molto rara nei nostri centri.
  • Incentivare i risultati delle università nella terza missione. La produttività scientifica è importante, ma senza uno sbocco commerciale, secondo Netval, resta monca.
  • Cambiare la legge sulle società partecipate, che di fatto esclude da questo genere di partecipazioni con gli spin-off da parte del mondo accademico, laddove utile.
  • Facilitare i finanziamenti liberi all’imprenditorialità di origine universitaria, controllata da un adeguato sistema di monitoraggio.
  • Rafforzare in termini economici e legislativi gli uffici di TT e il reclutamento di figure qualificate per questi compiti.
  • Fare formazione, per esempio ai dottorandi sui fondamenti di economia e marketing della ricerca. Basterebbero corsi da 20 ore per diffondere competenze minime.
  • Facilitare le donazioni alle università e ai centri di ricerca oltre agli strumenti attuali, così come gli incentivi fiscali per chi vuole fare donazioni alla ricerca pubblica in generale.
  • Creare le condizioni per la presenza anche in italia di centri di ricerca di imprese straniere.
  • Rafforzare il ruolo delle nostre ambasciate all’estero perché diventino volani dei processi di internazionalizzazione della ricerca.

“Vaste programme”, direbbe qualcuno. Ma non impossibile.

 


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