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L’università italiana, povera e classista

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L’OECD, l’Organizzazione per lo cooperazione e lo sviluppo economico, ha nei giorni scorsi reso pubblico l’OECD Skills Strategy Diagnostic Report Italy, un rapporto di 280 pagine sulle strategie per migliorare le abilità nel lavoro degli italiani. Il rapporto si divide in vari capitoli. E poiché oggi viviamo nell’economia della conoscenza, molte pagine sono dedicate alla scuola e un intero capitolo riguarda l’università.

Laureati italiani: pochi, poco preparati e male utilizzati?

Il rapporto ha trovato molta eco sui media italiani. E la sintesi che ne è stata data è: in Italia abbiamo pochi laureati, poco preparati e male utilizzati. Ma è proprio così? Le tre affermazioni sono tutte corrette?

Iniziamo con analizzare la figura n. 12 proposta nel rapporto, relativa al tasso di occupazione dei laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 65 anni. Come in molti paesi, anche in Italia l’occupazione delle persone in possesso di un titolo di “tertiary education” (laurea o equivalente) è diminuita dopo la crisi del 2008. In questo il nostro non è molto diverso dagli altri paesi OECD.

Certo, il tasso di occupazione dei nostri laureati è inferiore a quello di quasi tutti i paesi europei e anche della media OECD, ma tutto sommato di pochi punti. C’è chi, da questo punto di vista, sta peggio di noi. Non solo la Grecia e la Turchia, che è un po’ scontato. Ma anche – e questa è una sorpresa – gli Stati Uniti. Si consideri che negli USA si è considerati occupati con molto meno (molte meno ore lavorate) che da noi. La differenza reale dello stato occupazionale dei “tertiary graduates” nei ricchi Stati Uniti potrebbe essere maggiore di ciò che appare. Ovviamente, questo non deve essere affatto motivo di consolazione. E tuttavia non dobbiamo dimenticare che anche in Italia la laurea fa aumentare le opportunità di lavoro.

In prima battuta – e solo in prima battuta – possiamo dire che in Italia i laureati se non “meglio” sono certo “più” utilizzati dei non laureati. Il primo messaggio, che forse il rapporto non sottolinea con sufficiente enfasi, è che anche in Italia laurearsi conviene.

Ogni tipo di laurea va bene? Ogni università va bene? La figura 9 ci dice che forse la risposta a queste domande è no.

La figura mostra che in quasi tutti i paesi i laureati giudicati molto preparati sono, in termini relativi, molto più negli altri paesi che in Italia. In Giappone, in Olanda, in Svezia superano il 35% del totale, in Italia non raggiungono il 15%. Al contrario le persone che, pur avendo la laurea, risultano non adeguatamente preparate in Italia rappresentano quasi un record. Solo Grecia, Cile e Turchia ci battono in questa classifica in negativo.

L'Università italiana: mediocrità ed eccellenze

Sembrerebbe – e in parte lo è certamente – un giudizio molto severo sulla qualità non solo dei laureati, ma anche di chi li laurea: cioè sull’università italiana. E tuttavia questo dato sulla preparazione media sembra fare a pugni con un altro fatto: i laureati italiani che vanno all’estero trovano facilmente lavoro, sono molto apprezzati e fanno carriera. Molto probabilmente tutto questo significa che la mappa della preparazione dei “tertiary graduates” è a macchia di leopardo. Punte di assoluta eccellenza si alternano a punte di mediocrità. In più, le macchie si presentano non solo a scala regionale, ma anche a scala delle singole università. Il grado di preparazione è diverso anche nei vari dipartimenti di un singolo ateneo.

Quali sono le cause di questa così marcata diversità di preparazione? La figura 13 ci fornisce non “la” risposta, ma certo individua uno dei fattori determinanti. L’investimento in formazione. La spesa per studente nell’università italiana è la metà della media europea e OECD, meno di un terzo di quella nel Regno Unito e più o meno un quinto di quella negli Stati Uniti.

Un'Università drammaticamente "povera" e classista

Detta in altri termini, le nostre università sono drammaticamente povere. Di uomini (docenti) e di mezzi. Sarebbe davvero strano che, in tutti i settori, formassero giovani con la medesima preparazione degli altri paesi. È già un miracolo che con così poca spesa siano presenti punte di eccellenza assoluta.

Ma, prima ancora della qualità, un dato fondamentale riguarda la quantità della “Tertiary Education”. La Figura 6 del rapporto OECD mostra che meno del 20% della popolazione italiana in età da lavoro ha una laurea, contro una media OECD che è esattamente doppia (40%). In alcuni paesi, come Giappone e Stati Uniti, più della metà della popolazione di età compresa tra i 25 e i 65 anni è laureato. È questo il grande gap italiano. Nel nostro paese i laureati sono troppo pochi.

E la laurea non costituisce un’opportunità praticabile per i giovani appartenenti alle classi meno abbienti. La figura 7 mostra come solo l’8% dei ragazzi che hanno entrambi i genitori non laureati acquisisce la laurea, contro il 22% delle media OECD. È evidente che l’università italiana è uno specchio della società italiana, dove la mobilità sociale è scarsa. Malgrado tutto, l’università italiana è frequentata dai figli delle famiglie più ricche o, almeno, delle famiglie più colte.

Il rapporto OECD ci propone un’ulteriore fotografia. I laureati italiani non sempre (diciamo pure quasi mai) finiscono per svolgere un lavoro con una qualifica adatta al titolo di studio. Spesso i giovani laureati svolgono lavori superiori alla loro qualifica e alle loro capacità. Ma ancora più spesso svolgono un lavoro meno qualificato di quello a cui legittimamente potrebbero/dovrebbero ambire.

È questo uno dei motivi per cui tanti giovani un lavoro adeguato lo vanno a cercare all’estero, malgrado il numero di laureati in Italia anche nelle fasce giovanili (25-35 anni) resti estremamente basso: il più basso in assoluto tra i paesi OECD.

Un modello di sviluppo "senza ricerca"

Perché tutto questo? Ecco, a questa domanda il rapporto OECD non risponde. Non in maniera adeguata, almeno. Abbiamo pochi laureati e, tra i pochi che abbiamo, molti sono costretti o a emigrare o a cercare lavori poco qualificati perché il nostro sistema produttivo non richiede lavoratori “tertiary graduates”. Lavoratori con la laurea o con un dottorato. Il motivo, da sessant’anni è il medesimo: la specializzazione del nostro sistema produttivo. La nostra economia segue, ancora, un “modello di sviluppo senza ricerca”. Produce beni e servizi a basso tasso di conoscenza aggiunto. È questo il motivo per cui abbiamo un basso numero di laureati e per cui anche i pochi che abbiamo sono mal utilizzati. Il problema è che una simile specializzazione produttiva del sistema paese è del tutto insostenibile in quella che viene definita “la società e l’economia della conoscenza”.


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