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Cambiare psicologia per curare il clima

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"A rischio di suonare come un disco rotto". Sono queste le parole utilizzate dalla National Oceanic and Atmospheric Administration, l'agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia, quando, un anno fa, dichiarava che la concentrazione globale di anidride carbonica nell'atmosfera aveva superato la soglia critica delle 400 ppm.

"A rischio di suonare come un disco rotto": ripetitivo, monotono, noioso, stridente. E' noto che gli esseri umani non sono solo spettatori, ma, al contrario, negli ultimi 150 anni, stanno partecipando in maniera attiva (e negativa) al cambiamento climatico. Sappiamo inoltre che, a lungo termine, ci saranno importanti costi sociali ed economici da sostenere, ma riusciamo a percepire gli effetti di questo mutamento solo quando essi si palesano ai nostri occhi sotto forma di condizioni meteoriche estreme: terremoti, inondazioni, siccità, uragani, tsunami...

Ma perché l'uomo tende a procrastinare il problema e non agisce direttamente alla base? Rispondere a questa domanda (apparentemente semplice) può risultare impegnativo.

Comunicazione fallimentare

Nel suo articolo pubblicato da Science, “Beyond the roots of human inaction: Fostering collective effort toward ecosystem conservation”, Elise Amel, docente di psicologia dell'Università di St. Thomas, a St. Paul (Minnesota) e presidente della Society of Environmental, Population and Conservation Psychology, spiega le motivazioni del fallimento delle campagne di educazione ambientale e di sensibilizzazione adottate fino a pochi anni fa. La sua ricerca non si concentra però esclusivamente sui problemi comunicativi, ma assume una visione più ampia sugli ostacoli che ci allontanano da un'azione significativa: la chiave per preservare l'habitat naturale non può prescindere da un importante cambiamento del comportamento sociale e dalla progettazione di un nuovo ambiente collettivo.

Emozioni versus reti sociali

Amel sottolinea come gli sforzi impiegati per informare le persone, già a partire dagli anni '70, non abbiano portato a cambiamenti significativi nel comportamento: l'utilizzo della paura e del senso di colpa, infatti, non sono il metodo più efficace per spingere le persone verso un'azione duratura e costante nel tempo.

A influenzare il comportamento individuale nella scelte, infatti, non intervengono solo forze interne (emozioni, credenze, atteggiamenti...), ma anche influenze esterne. I fattori esterni, le reti sociali, le tradizioni culturali, le abitudini, le infrastrutture, gli investimenti e i social network, vengono spesso sottovalutati nella stima dell'influenza sul comportamento. Un errore nella comunicazione fino ad ora utilizzata prevedeva un focus quasi esclusivo sul primo gruppo (interno) di fattori, trascurando invece il contesto.

Più attenzione ai comportamenti collettivi

“Avvicinare la collettività a un sistema sostenibile risulta ancora più difficile che agire sulle singole condotte individuali: a differenza delle formiche e delle api, per gli esseri umani risulta artificioso indirizzare il comportamento individuale per un bene comune”. Questo è il motivo per cui molti individui non vogliono rinunciare alla propria auto personale, né spendere in efficienza energetica, anche se ciò vorrebbe dire risparmiare denaro a lungo termine e contribuire a ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Gli individui sottovalutano o addirittura scotomizzano le conseguenze a lungo termine, prediligendo il “qui e adesso”. Gli sforzi per comunicare il cambiamento climatico sono quindi complessi, in quanto si reputa istintivamente che i problemi a lungo termine possano essere differiti continuamente. Laddove, dal punto di vista pratico, si dovrebbero intraprendere ora azioni per evitare che i problemi globali diventino irrisolvibili in futuro, anche se non potremo sperimentare personalmente gli effetti di queste azioni.

Sfere d’influenza

L'autrice identifica inoltre una serie di strategie per superare i limiti della mente umana. I singoli svolgono un ruolo fondamentale nell'elaborazione di azioni collettive all'interno di varie sfere d’influenza: questo comportamento deve diventare il fulcro per cambiare i grandi sistemi che impattano sul pianeta (cibo, trasporti, vendita al dettaglio, ecc.). Lo studio mette in evidenza come i "leader trasformazionali", coloro che decidono di prescindere da norme sociali accettate, possono portare a grandi cambiamenti all'interno della propria rete sociale e delle organizzazioni di cui fanno parte. Mentre ci si sente incredibilmente impacciati a proporre qualcosa di diverso dalla norma, l'idea che non dovremo farlo da soli e che avremo il sostegno di altre persone, in particolare dei leader riconosciuti dalla sfera d'influenza, rende l'impresa emotivamente sostenibile.

Ecological urbanism

Dallo studio emerge, inoltre, che anche l'architettura e l'urbanistica, discipline apparentemente distanti dalle questioni climatiche, possono invece compartecipare a soluzioni sostenibili attraverso nuovi modelli di progettazione ispirate alla natura, come viene illustrato in modo convincente da opere recenti come Ecological Urbanism. Dopo il fallimento delle campagne di educazione ambientale tradizionali basate sulla paura, per comunicare gli effetti del cambiamento climatico in modo esplicito, accessibile ed efficiente sarà necessario scomodare scienze finora estranee alle tradizionali discipline ambientali e farle lavorare insieme in una nuova prospettiva integrata.

Bibliografia:
Amel, E.L., Manning, C.M., Scott, B.A., & Koger, S.M. (2017). “Beyond the roots of human inaction: Fostering collective effort toward ecosystem conservation”. Science, 356, 275-279.


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