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Reinventare la tradizione per ospitare la biodiversità

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Un articolo da poco pubblicato su Nature dimostra che le aree a coltivazione estensiva e differenziata ospitano un numero di specie di uccelli paragonabile agli ambienti forestali. Al contrario, nelle monocolture intensive si ha un dimezzamento della ricchezza specifica. Per un futuro sostenibile la scienza ci consiglia di recuperare elementi dell’agricoltura tradizionale.
Crediti immagine: Enrico Pighetti. Castelluccio, fioritura 2018

Il riscaldamento globale e la pandemia di COVID-19 ci indicano che l’attuale sovrasfruttamento delle risorse naturali non solo depaupera la natura, ma è un’arma a doppio taglio che ci si rivolta contro. Le conseguenze sono ormai note: siamo di fronte a quella che viene definita la sesta estinzione di massa, con numerose specie animali in costante declino numerico, fino all’estinzione. Le aree protette sono fondamentali per conservare la natura, ma non possiamo pensare di confinare tutti gli altri viventi all’interno di queste aree. Se l’ambiente che le circonda continua a essere degradato, le aree protette diventano isole di habitat idonei, e alla lunga perdono parte della capacità di garantire la biodiversità che proteggono. Per questo è importante investire nella qualità e nella connettività degli ambienti esterni a parchi e riserve naturali, creando un mosaico di habitat che possa ospitare sia le attività umane che la biodiversità. Utopia?

Diversificare aiuta la biodiversità

Andiamo idealmente tra le foreste neotropicali del Costa Rica. Questo piccolo Paese centroamericano ospita, secondo le ultime stime ufficiali, circa 920 specie di uccelli, tra cui coloratissimi tucani, are e colibrì. Le foreste costaricane, come quelle in altre zone tropicali, sono state oggetto di intensa deforestazione, per fare spazio a piantagioni di caffè, banane, canne da zucchero, foraggere per il bestiame, allevamenti e così via. In Costa Rica la deforestazione è stata particolarmente intensa nella seconda metà del secolo scorso, poi, fortunatamente, c’è stato un significativo rallentamento nel nuovo millennio. Non tutte le zone agricole sono coltivate allo stesso modo: ci sono vaste aree dedicate all’agricoltura intensiva, dove la monocoltura impera, e ambienti coltivati in modo estensivo, che ospitano diverse tipologie di piante da frutto e contengono vegetazione naturale sia arbustiva che arborea.

Sono modi molto diversi di conduzione agricola e profondamente differente è l’effetto sulla biodiversità: le aree ad agricoltura estensiva e diversificata ospitano comunità ornitiche con una ricchezza specifica paragonabile a quella delle foreste, mentre nelle monocolture intensive la ricchezza specifica è meno della metà di quella degli ambienti forestali. Questi sono i risultati di uno studio pubblicato recentemente su Nature, che analizza una serie storica di conteggi ornitologici lunga 18 anni, con ben 281.415 osservazioni, condotta in misura uguale nei tre tipi di ambiente (foresta, agricoltura estensiva e diversificata e monocolture intensive) in quattro diverse aree del Costa Rica. Nelle aree di monocoltura intensiva si osserva un rapido declino nel numero di specie, costante e senza ripresa nel corso dei 18 anni. Non solo diminuisce il numero di specie, ma si ha una omogeneizzazione dal punto di vista funzionale: diminuiscono gli uccelli nettarivori e aumentano i granivori. L’aumento di questi ultimi è ormai un fenomeno comune in tutto il centroamerica ed è una tendenza associata appunto alla deforestazione e all’agricoltura intensiva.

Nelle foreste e nelle aree agricole diversificate, invece, si osservano fluttuazioni annuali, ma non così pronunciate, anche se comunque nel corso dei 18 anni, le zone agricole hanno comunque un trend in leggera diminuzione che non si osserva nelle aree forestali. All’interno di queste aree diversificate i ricercatori hanno trovato anche uccelli che sono minacciati di estinzione secondo le liste rosse IUCN, che rappresentano precisamente il 59% del totale delle specie presenti.

Le aree coltivate in modo intensivo poi non sono in grado di far fronte ai cambiamenti climatici. I ricercatori hanno quantificato l’effetto di eventi climatici estremi o temperature elevate sulle comunità ornitiche presenti nei tre tipi di habitat: i risultati mostrano che all’interno delle monocolture intensive si ha una forte ripercussione sulle comunità ornitiche, mentre le aree agricole diversificate riescono a tamponare gli effetti quasi al pari degli ambienti forestali. Gli uccelli sono dei buoni indicatori della qualità degli habitat, per questo i ricercatori pensano che un ambiente in grado di sostenere le popolazioni ornitiche possa rivelarsi idoneo per ospitare altre classi di specie.

Progresso o regresso?

Non serve andare tra le esotiche piantagioni costaricane per osservare le differenze tra un’agricoltura diversificata e parte integrante del paesaggio e quella intensiva. Giacomo Assandri è un ornitologo che ha studiato le comunità ornitiche dei vigneti e dei prati stabili (ovvero destinati alla produzione di foraggio) in Trentino, in un progetto dell’Università di Pavia e del Museo di Scienze Naturali di Trento (MUSE). Quello che ha osservato è che le aree gestite in modo tradizionale ospitano molte più specie di uccelli, incluse specie di elevato interesse conservazionistico. «L’intensificazione dei prati e dei vigneti opera su due livelli», spiega Assandri. «Il primo locale, perché agisce proprio sul campo: è l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi, come fertilizzanti, insetticidi, anticrittogamici, erbicidi… a cui si somma l’apporto di input esterni, come l’irrigazione intensiva. Il secondo, invece, è un processo più sistemico che interessa intere aree di paesaggio e comporta l’eliminazione di tutti quegli elementi marginali, seminaturali, quali siepi, filari di alberi, magari piccole pozze, e anche muretti a secco, che nell’agricoltura del passato erano molto più comuni, e per le logiche dell’agricoltura intensiva vengono eliminate, per esempio per fare posto ai grandi macchinari agricoli, oppure semplicemente per aumentare l’estensione dell’area coltivata».

Particolare è poi il caso dei prati stabili, che da un lato vengono intensificati, dall’altro abbandonati. Assandri spiega a Scienza in rete che questo è legato ai cambiamenti degli ultimi decenni nella gestione degli allevamenti. Un tempo, sull’arco alpino si trovavano tante piccole stalle diffuse, oggi sostituite da grandi allevamenti. La grande quantità di deiezioni prodotte da questi animali viene impiegata per fertilizzare i prati. La resa immediata è buona, ma poi la sovrabbondanza di materiale organico ha l’effetto contrario: le comunità vegetali si impoveriscono, in termini di numero di specie, e il prato è meno produttivo.

Diversa è la sorte dei prati di alta quota, soggetti all’abbandono e alla ricolonizzazione da parte del bosco. Le aree aperte con coltivazione tradizionale estensiva sono zone agricole di elevato valore per la biodiversità floristica, ma anche ornitologica, perché ci sono specie di uccelli che si sono adattate a questi tipi di ambienti aperti e che da essi dipendono.

Campagne silenziose

Il melodioso cinguettio degli uccelli in campagna rischia di diventare un ricordo, con l’avanzare dell’intensificazione delle pratiche agricole. Il trend di diminuzione dell’avifauna nelle campagne è un problema globale. Uno studio del 2018 del CNRS, il centro di ricerca nazionale francese, ha dimostrato che tra il 1989 e il 2017 si è osservato un costante declino (il 33% in meno) della numerosità di specie di uccelli di campagna, fatta eccezione per quelle più generaliste che troviamo un po’ dappertutto (ad esempio le gazze, le cornacchie grigie e gli storni). La Francia è in buona compagnia: uno studio analogo nel Regno Unito dimostrava un dimezzamento del numero di specie di uccelli negli ambienti rurali, in Nord America il 74% delle specie è in costante declino e lo stesso vale per l’Europa.

L’inizio della crisi coincide con la cosiddetta green revolution, la rivoluzione verde, che nella seconda metà del Novecento ha portato all’intensificazione dell’agricoltura, aumentandone la produttività e conferendole le caratteristiche industriali che ben conosciamo. In Europa, la politica agricola comunitaria (Pac) ha incoraggiato l’intensificazione dell’agricoltura, attraverso finanziamenti di sostegno agli agricoltori che promuovevano pratiche intensive di sviluppo. Negli ultimi anni l’attenzione del programma di sviluppo rurale ha iniziato a includere elementi di promozione del “greening”, ovvero l’adozione di strategie agricole a beneficio della biodiversità. L’indicatore utilizzato per valutare lo stato della biodiversità negli habitat agricoli è proprio il conteggio delle specie ornitiche. Infatti è stato sviluppato un indice, il Farmland Bird Index (Fbi), basato sul numero di specie nidificanti negli ambienti agricoli degli Stati Membri, e utilizzato per valutare gli effetti della Pac sull’ambiente. In Italia in generale il trend è negativo, ma come è facile aspettarsi il declino del numero di specie ornitiche rurali è stato particolarmente severo nelle zone di pianura.

Innovare nella tradizione

Cosa si può fare per cercare di fermare le perdite e invertire i trend? La prima soluzione che mi è venuta in mente è una conversione all’agricoltura biologica. In realtà non è così semplice. Giacomo Assandri mi ha spiegato che «per quanto riguarda la produzione vinicola il monitoraggio ha rivelato che il biologico non ha l’effetto positivo che ci si aspettava sugli uccelli. Il motivo principale è che le produzioni biologiche non utilizzano tutta una serie di prodotti di sintesi chimica, però si utilizzano insetticidi naturali, come il piretro, che però è ad ampio spettro, quindi agisce su tutte le specie di insetti presenti. Nel convenzionale si usano prodotti molto mirati che uccidono il parassita di interesse, e questo alla fine si rivela una strategia migliore per la tutela delle specie ornitiche insettivore. In realtà, per quanto riguarda i vigneti in Trentino, non ci sono molte specie di insetti dannosi e quindi i trattamenti che si fanno anche nel sistema convenzionale sono soprattutto di zolfo e rame, che servono a trattare i funghi patogeni come la peronospora. Inoltre, per quanto riguarda gli uccelli, si è osservato che il disturbo meccanico nei vigneti biologici ha un effetto negativo, perché i trattamenti devono essere eseguiti più di frequente che nel convenzionale».

Insomma, non è tutto oro quello che luccica, e quindi quali possono essere le soluzioni? Il problema in realtà è sempre la scala e la modalità di utilizzo dei terreni: ci sono alcuni piccoli e medi agricoltori che decidono di produrre in modo biologico come scelta di vita e di rispetto per l’ambiente, e applicano misure di tutela del paesaggio delle colture estensive. Diverso è il caso dell’industrializzazione del biologico. «Quando parliamo di grandi produzioni, parliamo di ampie aree coltivate nelle quali non ci sono tutti quegli elementi di vegetazione marginale che invece sono fondamentali per la biodiversità ornitica. L’effetto positivo dipende molto dalla struttura del paesaggio circostante: in paesaggi eterogenei, strutturati, con la presenza di elementi naturali o seminaturali, i campi biologici ospitano molta più biodiversità dei convenzionali. In Europa si è visto un effetto positivo anche sugli artropodi, probabilmente dovuto al fatto che i predatori (ad esempio i ragni) e i parassitoidi che sono nelle siepi attorno possono spostarsi all’interno del campo nel momento in cui aumentano gli insetti nocivi per le colture», spiega il ricercatore.

Quindi per sostenere la biodiversità è essenziale diversificare le colture, includere elementi naturali o seminaturali oltre a diminuire l’utilizzo di composti chimici. «Le zone agricole a coltivazione estensiva hanno un elevato valore per la biodiversità, però ci devono essere una serie di presupposti che permettano agli animali di sopravvivere. Per esempio, nelle aree di prato-pascolo non intensive, nell’erba nidificano diverse specie di uccelli, come lo stiaccino, il pispolone, il re di quaglie. Quindi è molto importante che la data di sfalcio sia fissata dopo l’involo dei pulcini. Per motivi produttivi, e per le alte temperature delle ultime primavere, lo sfalcio è stato sempre più anticipato, e questi animali, un tempo comuni negli ambienti aperti, sono scomparsi da intere aree e sopravvivono a quote più elevate dove lo sfalcio viene fatto a luglio», racconta Assandri.

Conservazione diffusa

Se vogliamo invertire il trend di perdita di biodiversità, intervenire sui cambiamenti climatici e produrre risorse per un umanità in costante crescita, è molto importante rendere la produzione agricola sostenibile. Produrre meno, buttare meno e avere terre che mantengano il suolo fertile e possano ospitare le specie animali. Come dimostra lo studio costaricano e conferma una review di Science sul ruolo delle aree agricole per la biodiversità, questi ambienti sono anche più resistenti rispetto ai cambiamenti climatici. In questo modo le campagne diventano corridoi tra le aree protette, che possono ospitare le specie migratrici. Una produzione sostenibile, che si basa sul fare in parte un passo indietro, tornando a metodi di sfruttamento delle aree agricole tradizionali, ma che sarà innovativo per il suo ruolo cruciale nel garantire la sostenibilità ambientale nell’Antropocene.

 


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