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MISSION: insegnare il metodo scientifico

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Ogni volta che un insegnante prepara un’unità didattica si domanda quali sono i contenuti che lo studente apprenderà, quali quelli che ricorderà in futuro e quali saprà applicare nei diversi contesti. L’insegnamento delle materie scientifiche richiede uno sforzo ulteriore da parte degli insegnanti, quello cioè di cercare di modificare una visione negativa o evanescente della scienza, vista come lontana dalla quotidianità e spesso difficilmente comprensibile.

Da alcuni mesi un team di docenti provenienti da diverse regioni d’Italia ha dato origine a Mission, un progetto pilota finanziato dal Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, che vede coinvolti bambini e ragazzi dagli 8 ai 16 anni di età e che si prefigge come obiettivo quello di far comprendere che la scienza è atteggiamento e metodo oltre che insieme di conoscenze. “Il metodo scientifico non è patrimonio riservato di coloro che vengono definiti scienziati” scriveva nel 1938 il filosofo statunitense John Dewey nel suo saggio intitolato L’unità della scienza come problema sociale: “l’atteggiamento scientifico è una qualità che si manifesta in ogni passo della vita”.

Secondo gli insegnanti di scuola primaria e secondaria che hanno partecipato il 7 e 8 settembre al workshop Mission presso il Liceo Filzi di Rovereto di Trento, è possibile abituare gli studenti al metodo scientifico attraverso l’investigazione attiva su artefatti analogici che riproducono fenomeni o oggetti della vita quotidiana. Poiché spesso gli ingranaggi degli oggetti che quotidianamente utilizziamo, come l’orologio, la bicicletta o il passaverdura, sono nascosti o difficilmente isolabili dal contesto, i ragazzi raramente si interrogano su come avvenga il loro funzionamento. L’idea è quella di riprodurre il meccanismo di alcuni oggetti o fenomeni dei quali abbiano esperienza concreta e di farlo studiare dagli studenti.
Per realizzarla il progetto Mission, in collaborazione con il Muse di Trento, mette a disposizione un kit contenente ruote dentate, pinze, manovelle, e ogni altro genere di attrezzatura meccanica utile a costruire un meccanismo che il docente o un team di studenti possa inserire in una scatola di compensato sigillata prima della lezione. Gli studenti, osservando dall’esterno la scatola e facendo girare le manovelle che fuoriescono, devono provare a capire quanti e quali ruote dentate o altri componenti sono state inseriti e come funziona il meccanismo, elaborando uno o più modelli teorici.
“Nella situazione di insegnamento attuale, di tipo trasmissivo, i ragazzi leggono e imparano a memoria concetti e metodi, ma non sono portati a conoscere, comprendere e a interessarsi al percorso con il quale sono stati conseguiti certi risultati. Il successo di questo progetto è legato all’abitudine a costruire il sapere attraverso l’indagine, la speculazione e le prove sui fenomeni, in un lavoro di gruppo che può anche essere faticoso, ma sfidante” afferma Matteo Cattadori, docente di scienze presso l’istituto Filzi e tra gli ideatori del progetto Mission, “i ragazzi devono acquisire un metodo ed una sensibilità nei confronti del metodo sperimentale, per poi riuscire ad applicarla nello studio dei contenuti scientifici e in altri contesti”.


Immagine - Fase di montaggio del kit con cui il progetto Mission si prefigge di allenare i ragazzi delle scuole al ragionamento scientifico: in base a ciò che si vede succedere fuori dalla scatola montata bisognerà arrivare attraverso la formulazione di ipotesi a capire la disposizione dei meccanismi posit dentro la scatola.

Durante la prima fase di sperimentazione avvenuta in alcune scuole, bambini e ragazzi si sono cimentati in vere e proprie ricerche scientifiche sperimentali, osservando gli oggetti e cercando di reperire i dati, di formulare ipotesi e di trarre conclusioni basandosi esclusivamente sull’evidenza. Oltre al materiale di laboratorio, il progetto Mission mette a disposizione video caricati su Youtube dove vengono mostrate le attività e i l’uso di programmi che simulano anche al computer la ricerca di meccanismi nascosti. “C’erano alunni della primaria che stavano ore e ore a casa a riguardare i risultati delle prove per trovare un modello teorico soddisfacente, dopo i tentativi falliti in classe” riporta Alfredo Tifi, docente di chimica presso l’istituto d’istruzione superiore Matteo Ricci di Macerata e tra i primi sperimentatori del progetto Mission e continua “spesso altre sperimentazioni creative mettono i ragazzi di fronte a un obiettivo tecnologico cioè, in base alle loro conoscenze teoriche, essi devono ideare e produrre oggetti, sistemi per raggiungere uno scopo, una funzione predeterminata. In questo caso è diverso. L’obiettivo vuole essere principalmente scientifico, ovvero svelare come accade quel fenomeno o come funziona quel meccanismo, un metodo per conoscere l’ignoto. Si tratta di un diverso tipo di creatività”.

Prefiggersi come scopo la comprensione del reale significa lavorare come un ricercatore in un gruppo dove ciascun componente apporta il proprio sapere e le proprie capacità. L’insegnante diventa a quel punto parte integrante del gruppo e non mero dispensatore di conoscenze. Il docente avrà comunque il compito di valutare il lavoro di ciascun componente del gruppo sia nella parte della raccolta dati e formulazione di congetture, sia nell’acquisizione di un linguaggio specifico che permetta a tutti i componenti una comunicazione efficace. L’insegnante potrà quindi verificare l’apprendimento del metodo scientifico e la sua applicazione in campi diversi della conoscenza. “Non è fattibile ne’ desiderabile che tutti gli esseri umani diventino esperti di una scienza particolare” concludeva Dewey “ma è decisamente desiderabile, e in certe condizioni realizzabile, che tutti gli uomini diventino scientifici nei loro atteggiamenti”.

 


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