Tecnologia innovativa in grado di risolvere il
problema della fame dei paesi in via di sviluppo, o potenziale pericolo per
l'uomo e l’ambiente? Negli ultimi anni il dibattito sugli OGM non ha smesso di
alimentare polemiche. Ma mentre continua il “dialogo” tra
ambientalisti, politici e comunità scientifica,
l'applicazione delle biotecnologie all'agricoltura è in
rapida espansione.
Sono i numeri a dirlo: secondo l’ultimo
rapporto
dell’Isaaa (International Service for the Acquisition of Agri-biotech
Applications) nel 2014 sarebbero stati 181 milioni di ettari coltivati a
OGM nel mondo (nel 1996 erano appena 1,7 milioni). Gli
alimenti prodotti a partire da colture GM sono diventati così
onnipresenti.
Presenza che in 64 paesi deve essere documentata sulle confezioni degli alimenti. Etichettatura che non è però necessaria
per la statunitense Food and Drug Administration (FDA).
All’incremento dei prodotti
geneticamente modificati corrisponde anche un aumento degli studi e delle
polemiche legate a questa tecnica. Ultimo in ordine di tempo è un articolo di questa settimana del The New England Journal of Medicine (NEJM).
In “GMOs, Herbicides, and Public Health” Philip
J. Landrigan dell’Icahn
School of Medicine e Charles Benbrook della Washington State University
si sono concentrati sull’esplosione nell'uso di erbicidi secondo loro attribuibile alla
diffusione delle cultura GM negli Stati Uniti. Attualmente il mais, la soia e
il cotone GM coprono oltre il 90% della produzione negli USA.
Uno dei
principali problemi causati dalla diffusione di colture GM resistenti agli
erbicidi è il rapido emergere di erbe infestanti che diventano a loro volta
resistenti al glifosato, base del diserbante RoundUp.
Nel loro editoriale Landrigan e Bembrook citano un studio del maggio 2015 dove
viene spiegato come, inizialmente, l’uso del glifosato avesse aumentato il
rendimento dei raccolti garantendo, inoltre, una migliore gestione delle erbe
infestanti.
Così facendo si ha avuto una notevole riduzione del terreno utilizzato e un
minore impatto ambientale. Ma l’uso continuo e crescente dell’erbicida dalla
Monsanto ha facilitato l’evoluzione di erbacce resistenti che hanno portato a
un aumento dell’uso del glifosato con una conseguente diminuzione dei benefici
ambientali.
L’aumento
degli infestanti resistenti al glifosato hanno spinto le industrie del settore a
immettere sul mercato nuovi prodotti. Ed è proprio l’introduzione di uno di
questi nuovi erbicidi a essere al centro dell’editoriale del NEJM.
I due scienziati puntano il dito, infatti, sulla
recente decisione dell’Environmental Protection
Agency (EPA) di autorizzare l’uso dell’erbicida
2,4-D (acido 2,4-diclorofenossiacetico), un componente del defoliante Agent
Orange usato nella guerra del Vietnam.
Un scelta alquanto strana dato che la IARC ha
deciso di classificare il 2,4-D come “potenzialmente
cancerogeno per l’uomo”, un
gradino sotto la categoria in cui ha inserito invece il glifosato ma due sopra la definizione “probabilmente
non cancerogeno”.
I due scienziati invitano l’EPA
a rivedere la propria decisione dato che è possibile
che gli alimenti geneticamente modificati e gli erbicidi utilizzati su di essi
possono rappresentare un pericolo per salute umana. “A
nostro avviso – scrivono Philip J.
Landrigan e Charles Benbrook – la
valutazione in merito all’utilizzo del 2,4 D sono
errate dato che si sono basati su studi tossicologici dei primi anni Novanta.
In queste ricerche non era ancora prevista, per esempio, la valutazione del
rischio dei potenziali effetti sulla salute nei neonati e nei bambini”.
Bisognerebbe quindi mettere in cantiere nuovi
studi da far svolgere a laboratori indipendenti e non collegabili alle aziende
che producono pesticidi. Ricerche per fare chiarezza e aiutare la popolazione a
destreggiarsi con un argomento così controverso
e in questa linea va vista l’ultima richiesta che i due
scienziati lanciano dalle colonne del NEJM: “è
giunto il momento di rivedere la decisione dell’Agenzie
federali statunitensi di non indicare sulle confezioni la presenza di alimenti
geneticamente modificati”.
L’etichettatura potrebbe portare molti vantaggi. E’ importante,
innanzitutto, per il monitoraggio di eventuali allergie alimentari e per la
valutazione degli effetti di erbicidi chimici utilizzati nella coltivazione
degli OGM. Ma rispetterebbe soprattutto la volontà di
un numero crescente di consumatori che insistono nel sapere da dove arrivano i
prodotti che mettono in tavola.
L’Italia già da anni ha adottato questo tipo di politica ma “è giusto iniziare anche
a etichettare tutti i cibi derivati da animali
nutriti con OGM. Questo perché quasi l'intera mangimistica italiana usa mangimi
OGM e sarebbe giusto che i consumatori fossero informati che quasi tutta la
carne, yogurt, formaggi, salumi, prosciutti anche dei più prestigiosi consorzi
di tutela e di produzioni DOP e IGP usa questi tipi di mangimi”, afferma in una recente intervista Roberto Defez, direttore del Laboratorio di Biotecnologie Microbiche all’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Napoli.
Golden Rice e il paper ritirato: perché?
Mentre una parte della comunità
scientifica chiede nuovi studi, un ulteriore innesco al dibattito intorno al
mondo delle colture OGM arriva dall’American
Journal of Clinical Nutrition che, il 29 luglio, ha
ritirato uno studio che mostrava i benefici del Golden Rice, il riso
transgenico in grado di produrre nel seme un quantitativo 23 volte superiore di
β-carotene rispetto al Golden Rice originale.
La decisione arriva a circa due anni di distanza dalla pubblicazione
della ricerca e della successiva indagine che aveva portato alla luce presunte
irregolarità dovute
a problemi relativi al consenso informato e all’assenza
di prove circa la revisione e l’approvazione da parte dei
comitati etici cinesi. Insomma siamo davanti a una storia singolare: nel caso
della ricerca di Guangwen Tang della Tufts University non sono stati
manipolati i dati ma sono stati rilevati dei difetti nell’iter
della raccolta dei dati. Ma per capire meglio la vicenda bisogna fare un passo
indietro partendo dalle caratteristiche del Golden Rice.
Il Golden Rice è una pianta di riso
ingegnerizzata in modo da accumulare β-carotene
nell’endosperma del granello. E’ in
grado di produrre nel seme un quantitativo 23 volte superiore di β-carotene
(37 mg/g) rispetto al Golden Rice originale.
Secondo la Oms e i CDC americani, ogni anno 500mila i bambini nel
mondo perdono la vista per carenza di vitamina A (VAD), e il 70% muoiono entro
l’anno successivo.
Nei paesi poveri, sono 200-300 i milioni di bambini a rischio di
carenza vitaminica, e 100-140 milioni hanno carenza specificamente di vitamina
A. “È
sconvolgente pensare che – spiega l’inventore
del Golden Rice Ingo Potrykus – non
solo siamo ben lontani da quei Millenium Development Goals che ci
eravamo prefigurati, ma addirittura che più di
10 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno. Gran parte di
queste morti è provocata da malattie comuni
che potrebbero essere evitate grazie a una migliore nutrizione.
È stato calcolato che la vita
del 25% di quei bambini potrebbe venir risparmiata offrendo loro una dieta che
includa prodotti provenienti da colture biofortificate con provitamina A e
zinco.
Il Golden Rice fa parte di queste colture. Chi
lavora a questi progetti coltiva la speranza che in un prossimo futuro il
Golden Rice cresca nei campi degli agricoltori e possa contribuire a migliorare
la dieta di milioni di persone”.
In quest’ottica Guangwen Tang, nel
2008, ha organizzato un trial nutrizionale con il “riso
dorato”. Collaborando con le istituzioni cinesi i ricercatori statunitensi
hanno dato, ogni giorno per tre settimane, a tre gruppi composti da dieci
bambini cinesi (tra i 6-8 anni) pasti contenenti Golden Rice, spinaci o
beta-carotene in capsule.
I risultati dello studio, pubblicati nel 2012, hanno dimostrato l’efficacia
del Golden Rice nel prevenire la carenza di vitamina A.
I dati prodotti in poco tempo hanno fatto il giro nel mondo diventando
uno degli studi più citati in materia ma mentre
cresceva la “fama” della
ricerca incominciavano a circolare, soprattutto da parte di Greenpeace, i
sospetti su presunte irregolarità presenti
nel trial.
Senza giri di parole in un articolo pubblicato sul proprio portale
Greenpeace parla “di 24 ignari bambini della
provincia dello Hunan utilizzati come cavie umane, per testare l'effetto del
Golden Rice”.
Il clamore mediatico che ne nasce costringe le autorità cinesi
e l’università americana responsabile dello
studio a compiere delle indagini sul caso. L’accuratezza
e l’integrità dei risultati vengono subito confermati, così come
la sicurezza dei protocolli. Ma cos’è che
non va allora nella ricerca? Dopo circa 3 anni di indagini è lo
stesso direttore del American Journal of Clinical Nutrition, in
comunicato stampa, a spiegare le motivazione del ritiro dello studio:
- gli autori non sono in grado di fornire prove
sufficienti per attestare l’esame della ricerca da parte
di un comitato etico cinese;
- gli autori non sono in grado di dimostrare che
tutti i genitori o i bambini coinvolti nello studio hanno compilato moduli per
il consenso al trial;
- i ricercatori avevano comunicato ai
partecipanti ai trial che sarebbe stato fornito loro un riso “contenente
β-carotene”, senza specificare
esplicitamente che si trattasse di un OGM.
Su questo ultimo aspetto Piero Morandini, ricercatore dell’Università di Milano, ha spiegato in un’intervista su Wired che “non aver dichiarato che il riso in questione fosse identificato come OGM è stato visto come una pratica imprecisa. A mio avviso era più che sensato che si parlasse di riso con β-carotene, perché scientificamente questo è il dato cruciale, ciò che distingue davvero il Golden Rice dal resto degli altri risi, non è il fatto che sia stato ottenuto per transgenesi. Il termine OGM è impreciso e fuorviante e porta con sé una forte percezione negativa. Attaccare uno studio in questo modo è a mio avviso un tentativo di delegittimarlo in modo ideologico, a maggior ragione dopo che le indagini ne hanno dimostrato la solidità scientifica e l’efficacia nutrizionale per la popolazione”.
"Stiamo lavorando per loro, o sono loro che
lavorano per noi?"
Queste vicende non fanno altro che riaprire il
dibattito, oramai decennale, sugli OGM ma soprattutto su come parte dell’opinione
pubblica e della stampa, continuamente, chiedano chiarimenti su presunti legami
fra ricercatori e le industrie del settore. Sospetti che spesso possono
degenerare come accaduto qualche giorno fa alla Washington State University e che
ha visto come protagonista Michelle McGuire, biotecnologo nel campo
della nutrizione.
Il ricercatore è stato stordito da alcuni
attivisti che chiedevano l’accesso alla sua casella di
posta per controllare presunti legami con biotech nel campo degli OGM.
McGuire è uno
dei 40 ricercatori degli Stati Uniti che sono bersaglio di attivisti contro
OGM, che da alcuni mesi stanno verificando quello che considerano la collusione
tra l'industria biotecnologia agricola e i centri di ricerca. Una vera e
propria indagine, che ha avuto inizio nel mese di febbraio, con quasi 4.600
pagine di e-mail esaminate. Fra queste spiccano quelle di Kevin Folta,
ricercatore dell'Università della Florida e noto
sostenitore di organismi geneticamente modificati. Bisogna subito precisare che
nelle mail non esiste nessun sospetto di cattiva condotta scientifica ma porta
alla luce rapporti molto stretti fra la Monsanto e Folta.
"Non c'è niente
che io abbia mai detto o fatto che non è coerente
con la scienza” afferma Folta. Ma di sicuro
queste mail mostrano come sui conti dello scienziato statunitense siano
transitati 25mila dollari provenienti dalla Monsanto. Soldi che, a dire di
Folta, sono stati stanziati per un progetto sulla comunicazione scientifica.
Corruzione? O semplicemente un aiuto economico per una migliore comunicazione
su un argomento così delicato? Non è questo
il problema, episodi del genere aprono interrogativi sui rapporti, alcune
volte, poco chiari fra ricercatori e mondo dell’industria.
Alcuni anni
fa, per esempio, la rivista francese Nouvel Observateur portò alla luce i
finanziamenti da parte di gruppi della grande distribuzione, come Auchan e Carrefour,
a favore degli studi di Eric Séralini tesi a demonizzare sia il mais Gm che l'erbicida RoundUp. Studi così finanziati si possono considerare indipendenti?
"Stiamo lavorando per loro, o sono loro che lavorano per noi?" si domanda Bruce Chassy, tossicologo dell’Università dell’Illinois.
"Probabilmente entrambe le cose". Di sicuro le università dovrebbero
fare di più per
educare i ricercatori su ciò che costituisce un conflitto
di interessi e quali tipi di rapporti finanziari debbano essere divulgati. "È necessario,
che gli scienziati rivelino le loro fonti di finanziamento per non dare la
percezione di subire pressioni", afferma l’esperto di etica Michael
Halpern.
Fonti:
GMOs, Herbicides,
and Public Health
Philip J.
Landrigan, M.D., and Charles Benbrook, Ph.D.
N Engl J
Med 2015; 373:693-695August 20, 2015DOI:
10.1056/NEJMp1505660