fbpx Alcalinizzazione degli oceani? Con cautela | Scienza in rete

Calce, calcare e olivina in mare per aumentare la CO2 assorbita? Forse sì, ma con cautela

Tempo di lettura: 8 mins

Dopo un recente aggiornamento su Nature riguardo allo sversamento negli oceani di minerali alcalini, abbiamo qui fatto il punto di cosa si sa di questo metodo geo-ingegneristico per la riduzione dei gas serra. Ancora non è usato in larga scala, sembra in alcuni casi essere promettente, ma va usata cautela per evitare di ridurne l’efficacia e danneggiare gli ecosistemi marini. Una cosa è certa: come tutti i metodi di cattura e stoccaggio di CO2, non è una soluzione magica, ma piuttosto un aiuto alla massiccia decarbonizzazione a base di rinnovabili.

Può essere che per abbassare i livelli di anidride carbonica in atmosfera si sverseranno nel mare calcare, calce, olivina, idrossido di magnesio e altre sostanze particolari. Come mai? Teoricamente per alzare un po’ il pH dell’acqua e al contempo facilitare l’assorbimento di CO2 in eccesso. Ma per capire quella che viene chiamata “alcalinizzazione” degli oceani, facciamo alcuni passi indietro.

Cos’è l’acidificazione degli oceani?

Come noto, l’oceano assorbe circa il 90% del calore in eccesso prodotto dalle attività umane e circa un quarto delle emissioni di biossido di carbonio, aumentando l’acidità dell’acqua. Infatti, parte della CO2 assorbita reagisce con l’acqua (H2O) e diventa acido carbonico (H2CO3):

CO2 + H2O = H2CO3

L’acido carbonico si divide in ione carbonato CO32- o bicarbonato HCO3- e ioni idrogeno, cioè protoni (H+). È la presenza degli ioni idrogeno, che a loro volta si legano all’acqua generando ioni idronio H3O+, a creare acidità:

H2CO3 = CO32- + 2H+ = HCO3- + H+

H+ + H2O = H3O+

E infatti, una delle formule per calcolare il pH è

pH = - log10 [H3O+]

che misura la concentrazione dello ione idronio. Più ce n’è più il pH è basso, e viceversa. Come noto, la scala del pH va da 0 a 14: la sostanza è acida tra 0 e 7, basica (o alcalina) tra 7 e 14. “pH” significa “potenziale di idrogeno”. Ci perdonino chimici per le semplificazioni.

«Il pH della superficie dell'oceano aperto è diminuito di un intervallo molto probabile di 0,017-0,027 unità di pH per decennio a partire dalla fine degli anni '80», dice l’IPCC nel rapporto speciale su oceani e criosfera. Badare bene, l’acqua non è diventata acida, il pH è comunque sopra 8, se si fa il bagno non ci si scioglie come nella vasca di acido fluoridrico di Breaking Bad. Tuttavia, questa acidificazione sta già causando gravi danni agli ecosistemi marini con ripercussioni sul benessere umano, visto quanto dipendiamo dai cosiddetti “servizi ecosistemici”. Si pensi solo alla produzione di ossigeno.

Cos’è l’alcalinizzazione degli oceani?

Ecco che subentra il processo inverso: l’alcalinizzazione. Si legge nel sito della no-profit Ocean Visions, tra gli altri (e in un loro video esplicativo), che l’aumento artificiale dell’alcalinità degli oceani accelera l’analogo processo geologico naturale (l’alcalinità è prodotta dal normale invecchiamento delle rocce, tipo calcare e basalto) e serve ad assorbire CO2 dall'atmosfera e a ridurre acidità dell’oceano. Per fare questo si deve aggiungere all’acqua materiale alcalino. Questo processo accelera la conversione della CO2 inorganica disciolta in acqua in ioni carbonato e bicarbonato (che avviene nei termini che abbiamo visto prima) che diventano il “deposito” naturale del gas serra tanto temuto. La vita media dello stoccaggio può raggiungere le decine di migliaia di anni, con variabilità che dipende da vari fattori. Il deficit di CO2 in acqua – e il conseguente assorbimento dall'atmosfera – è infatti causato dal consumo degli ioni H+ da parte del materiale alcalino immesso.

Il documento A Research Strategy for Ocean-based Carbon Dioxide Removal and Sequestration delle National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine di Washington DC ci fornisce degli esempi. Anzitutto, i metodi utilizzati sono generalmente riconducibili alla dissoluzione in acqua di minerali a base di silicato, come l’olivina, o di derivati del carbonato di calcio, come la calce viva o la calce spenta. L’olivina è una miscela di forsterite (Mg2SiO4) e fayalite (Fe2SiO4), che sciolta in acqua si dissocia in ioni che assorbono gli H+ liberi, riducendone la concentrazione e intrappolando appunto il biossido di carbonio in ioni bicarbonato o carbonato.

Mg2SiO4 + 4CO2 + 4H2O = 2Mg2+ + 4HCO3- + H4SiO4

Come si vede, la reazione dà luogo anche a ioni magnesio (Mg2+) e a H4SiO4, che è l'acido ortosilicico, cioè la forma con cui si trova in genere il silicio negli oceani. I numeri davanti alle molecole servono per bilanciare la reazione – cioè pareggiare il numero di atomi e cariche a destra e a sinistra – e non sono di poco conto. Questi quantificano infatti il rapporto tra le concentrazioni delle molecole utilizzate. Se cambiamo il rapporto da 1:4 a 1:2 tra il minerale e la CO2, questo è quello che si ottiene:

Mg2SiO4 + 2CO2 + 2H2O = 2MgCO3 + H4SiO4

Mg2SiO4 + 2CO2 + 2H2O + 2Ca2+ = 2Mg2+ + H4SiO4 + 2CaCO3

Molto grossolanamente – rinnoviamo le scuse ai chimici – si ottiene carbonato di magnesio e carbonato di calcio (grazie agli ioni calcio che svolazzano in giro). E nella fattispecie, la produzione di carbonato di calcio (CaCO3) genera CO2:

Ca2+ + 2HCO3- = CaCO3 + CO2 + H2O

Si capisce quindi che le reazioni chimiche che avvengono sono molto complesse e dipendono da molti parametri, come lo stato della materia in cui si trovano (solido, liquido, gassoso), la temperatura, la pressione, la concentrazione (che dipendono anche dalla profondità oceanica), e così via. Limitare che si formino sottoprodotti come il carbonato di calcio (che, giusto per complicare ancora le cose, è utile per la formazione degli esoscheletri di numerosi esseri marini) serve quindi a evitare di compromettere il senso dell’alcalinizzazione degli oceani, cioè quello di assorbire l'eccesso di CO2. Questo studio indica che per evitare questa sovrasaturazione, sarebbe meglio usare i minerali disciolti in soluzione piuttosto che sbriciolati allo stato solido.

L’alcalinizzazione degli oceani tra i metodi di cattura del carbonio

Come si legge in questa scheda tratta dall’ultimo rapporto IPCC, tra i metodi di cattura e stoccaggio di carbonio vi è anche l’alcalinizzazione degli oceani, per cui si stima un costo per tonnellata di CO2 risparmiata tra e 40 e 260 dollari. Sempre l’IPCC dice che il metodo sembra promettente, ma non essendo ancora stato studiato abbastanza va usata cautela per l’applicazione su larga scala.

In generale, il panel avverte che la cattura di carbonio dovrà necessariamente essere usata per raggiungere l’obiettivo 1,5°C, ma non come sostituto della drastica riduzione di emissioni di gas serra che passa anzitutto dalle rinnovabili; piuttosto ha senso usarla come supporto, soprattutto sul breve termine, per quei settori difficili da convertire.

Per altro, l’aumento dell’alcalinità si può ottenere anche attraverso il ripristino di “ecosistemi blu”, come dice questo studio. In particolare, il ripristino delle mangrovie, che sono comuni in ambienti marini tropicali poco profondi, «porterà a un notevole aumento locale dell'alcalinità oceanica in un'ampia gamma di scenari».

A proposito di efficienza, una recente notizia riportata su Nature, mette in guardia dal possibile uso scorretto dello sversamento di minerali alcalini, in particolare sulla necessità di mantenerli in superficie. «Se viene trascinata verso il basso nell'oceano, potremmo non ottenere i benefici per altri 1000 anni», ha dichiarato a Nature Katja Fennel, oceanografa presso la Dalhousie University di Halifax. L’esperta si riferisce nella fattispecie al progetto North Sea Beach della start-up Vesta, che ha già applicato circa 400 metri cubi di olivina su 400 metri di costa nel Mare del Nord. Secondo la start-up si riusciranno ad assorbire 400 tonnellate di CO2, considerando anche le emissioni del ciclo di vita. Anche l’estrazione dei minerali ha infatti un costo ambientale.

Questo è confermato da Stefano Caserini, project manager del progetto DESARC-MARESANUS, che usa biomasse per produrre calce spenta (cioè idrossido di calcio, Ca(OH)2) da usare come materiale alcalino: «ci sono diversi studi modellistici che hanno analizzato l’efficienza di rimozione per diversi tipi di mari, ossia in diverse condizioni di temperature, salinità, livelli di alcalinità di partenza, dinamiche delle masse d’acqua. L’efficienza varia in modo significativo, quindi le strategie di spargimento dovranno tenerne conto», e continua, «i risultati degli studi modellistici andranno poi verificati sul campo». Il progetto è frutto della collaborazione tra il Politecnico di Milano, la Fondazione Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e il finanziamento di Amundi. Qui uno studio al riguardo.

Sui possibili impatti negativi sulla biodiversità marina Caserini dichiara che «le evidenze per ora sono di tipo sperimentale, mostrano possibili impatti nei punti di spargimento se la quantità scaricata è eccessiva. Se lo spargimento è effettuato in modo corretto, la variazione di alcalinità è limitata e rimane l’effetto benefico del contrasto all’acidificazione».

Impatti sulla natura

Il metodo è già usato in acquari salati o nelle colture di ostriche, ma gli impatti sugli ecosistemi planetari non sono ancora chiari, come abbiamo visto. Da un certo punto di vista, il rafforzamento dell’alcalinità oceanica può anche rappresentare una fonte di nutrienti, come il ferro e il magnesio, che vengono prodotti dalle reazioni chimiche in seguito allo sversamento. Dall’altra parte, può manifestarsi l’effetto tossico di metalli come il nichel, che percola proprio dall’olivina, come si legge nel già citato documento delle National Academies.

Tornando a Vesta, William Burns, condirettore dell'Institute for Carbon Removal Law and Policy dell'American University di Washington DC, dice a Nature: «Vesta ha ottenuto finora buoni risultati con una piccola quantità di olivina, ma cosa succederà quando inizieremo a scalare? [...] Penso che sia necessaria una ricerca più approfondita sui rischi potenziali». Come si legge sul sito di Nature, questi timori hanno spinto la Planetary Technologies a usare l'idrossido di magnesio (Mg(OH)2), già utilizzato per ridurre l'acidità delle acque reflue trattate dagli impianti di depurazione, per cui esiste già un’infrastruttura. Ma anche in questo caso non è comunque risolto il problema degli eventuali sottoprodotti che andrebbero a generare nuova CO2.

Ulteriore cautela proviene da un altro recente studio ancora, per cui basalto e olivina sarebbero molto poco efficienti e oltretutto perturbanti la qualità dei nutrienti marini; mentre l’ossido di magnesio e la calce viva (che, contrariamente ai due precedenti, sono prodotti artificialmente) riuscirebbero a far assorbire più anidride carbonica con impatti ambientali ridotti, ma con un interrogativo sulle emissioni dal processo di produzione.

Insomma, i fattori, tra sicurezza ed efficacia, si sommano in alcuni casi e si bilanciano in altri: il ripristino degli ecosistemi di mangrovie è meno impattante ma ha capacità di stoccaggio più limitate; i sottoprodotti possono essere sia benefici che dannosi, e via dicendo. Si tratta, in ultima istanza, di continuare a fare ricerca per cercare di ampliare il più possibile la rosa di nuove tecnologie, in modo da rendere la transizione basata su rinnovabili, efficienza e risparmio energetico il più veloce e sicura per tutti.


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