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COVID-19 in Italia da settembre? Alcune domande e risposte sullo studio

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Valentina Bollati, co-autrice dello studio pubblicato su Tumori Journal che suggerisce una presenza di SARS-CoV-2 in Italia già dal settembre 2019, risponde ad alcune delle domande sollevate riguardo alla ricerca.

Crediti immagine: Hand photo created by teksomolika - www.freepik.com

Molto scalpore ha suscitato, e sta suscitando, l’osservazione prodotta dal team di ricerca composto da Istituto Nazionale dei Tumori, Università di Siena e Università degli Studi di Milano, di cui io faccio parte. L’articolo, ripreso anche da Luca Carra su Scienza in rete, propone una storia diversa da quella che conosciamo per quanto riguarda la presenza di SARS-CoV-2 in Italia.

Grazie all’analisi di campioni di sangue (plasma) raccolti dall’ Istituto Nazionale dei Tumori nel contesto dello studio SMILE, ideato per la prevenzione e la diagnosi precoce del tumore al polmone, è stato possibile valutare la presenza di anticorpi diretti contro SARS-CoV-2 in 959 volontari asintomatici, nel periodo compreso tra settembre 2019 e marzo 2020. Lo scopo principale dello studio era quello di provare a delineare le dinamiche temporali di diffusione del virus in Italia. Le ipotesi preponderante in letteratura descrivono infatti gli ultimi giorni di dicembre 2019 come il momento nel quale il virus ha fatto il suo ingresso in Italia. Inaspettatamente, il risultato ottenuto nel nostro lavoro ha evidenziato la presenza di anticorpi anti-SARS-CoV-2 in 111 su 959 soggetti, con la prima positività rilevata nel mese di settembre 2019.

Ma è davvero così inatteso questo risultato? In realtà, già altri studi avevano sollevato qualche dubbio in merito alla data di inizio della pandemia. Per esempio, un lavoro dell’ Istituto Superiore di Sanità (La Rosa et al, Science of the Total Environment, 2021) aveva mostrato a partire da dicembre la presenza dell’RNA virale in campioni di acque reflue raccolte a Milano, Torino e Bologna. Tale evidenza non può essere riconducibile a pochi individui positivi ma piuttosto a una circolazione del virus abbastanza sostenuta sul territorio nazionale.

Anche in Francia (paese che, almeno teoricamente, è stato colpito dalla pandemia dopo l’Italia) è stato riportato il caso di un paziente ricoverato in terapia intensiva a dicembre 2019, in seguito diagnosticato come Covid-19 (Deslandes et al, International Journal of Antimicrobial Agents, 2020).

Il nostro lavoro sta ora riportando lo starting point dell’epidemia ancora più indietro nel tempo. Nelle ultime 48 ore numerose sono state le domande emerse, tra i ricercatori (per esempio si veda il commento di Antonella Viola e Guido Poli, pubblicato su Scienza in rete) e non ricercatori, riguardanti gli aspetti metodologici e, in particolare, la specificità dei metodi che abbiamo utilizzato. Per questo, vorrei provare a chiarire alcuni aspetti dello studio. I punti di seguito riportati sono stati condivisi e discussi con Gabriella Sozzi, Emanuele Montomoli e Alessandro Manenti.

Come mai avete utilizzato un metodo “in-house” al posto di un kit commerciale?

Quando, a marzo 2020, abbiamo iniziato a studiare gli anticorpi anti-SARS-CoV-2 nei soggetti asintomatici (e mi riferisco anche all’esperienza dello studio UNICORN, che ha indagato la popolazione asintomatica tra i lavoratori dell’Università Statale di Milano) abbiamo preso in considerazione i kit commerciali presenti all’epoca sul mercato. Ci siamo ben presto resi conto che la maggior parte di essi era stata sviluppata al fine di confermare la diagnosi di soggetti ricoverati con sintomi gravi di Covid-19 e che male si adattavano alla popolazione asintomatica. Gli asintomatici infatti, molto spesso presentano una carica anticorpale minore dei malati gravi.

Abbiamo inizialmente valutato l’utilizzo di un cut-off più basso, cioè di abbassare la soglia oltre la quale un soggetto viene definito positivo. Inoltre, ci siamo accorti che i kit spesso mostravano un problema di cross-reattività con gli altri coronavirus “comuni”.

Abbiamo cercato di mettere insieme le nostre osservazioni con quelle raccolte dall’Istituto Nazionale dei Tumori e, a fronte delle nostre comuni criticità, abbiamo iniziato a collaborare con il professor Montomoli dell’Università di Siena, che da anni coordina e conduce personalmente studi epidemiologici e sieroepidemiologici a livello nazionale ed europeo, e che ha fondato una spin-off universitaria (Vismederi) per lo sviluppo di metodi di sieromonitoraggio. Il metodo da loro sviluppato per rilevare le Ig anti-SARS-CoV-2 sembrava risolvere tutte le nostre problematiche metodologiche: così è nata la nostra collaborazione.

Ma quindi il metodo Vismederi non è mai stato validato?

Certo che è stato validato! Per chi è più del settore, la validazione è stata effettuata utilizzando le linee guida dell’International Conference Harmonization (ICH). L’articolo che descrive la messa a punto del metodo è disponibile come pre-print e attualmente in fase di revisione per essere accettato da un giornale più convenzionale in forma ampliata rispetto al pre-print.

Per dare una idea di quello di cui stiamo parlando, l’Università di Siena, insieme a Vismederi, a oggi ha analizzato circa 60.000 campioni, sia in trial clinici che per ricerca epidemiologica.

Il metodo esclude cross-reattività con altri virus?

Per cross-reattività si intende la capacità di anticorpi prodotti in seguito a infezioni con altri virus di legarsi in modo aspecifico dando origine a una falsa positività. Innanzitutto va detto che il metodo da noi utilizzato rileva anticorpi diretti contro i 240 aminoacidi del receptor binding domain (RBD), cioè la parte della proteina Spike di SARS-CoV-2 che più di tutte è risultata altamente specifica. La proteina RBD utilizzata, inoltre, è prodotta in cellule umane (HEK293) e questo rende la proteina uguale a quella del virus rispetto a quelle usate dai test commerciali che sono prodotte in Baculovirus/Coli, e che hanno un folding diverso.

Inoltre, sono stati testati con il metodo in esame una serie di campioni certificati come positivi ad altre infezioni da coronavirus stagionali (acquistati da BioIVT) e campioni positivi per diversi virus influenzali. Nessuno di questi campioni è risultato positivo. Questi risultati sono stati integrati nell’articolo a cui facevo riferimento poco fa.

Perché non avete utilizzato una popolazione raccolta “in tempi non sospetti” per escludere la possibilità che le vostre osservazioni siano dovute a qualche artefatto?

In realtà lo abbiamo fatto. Nelle prime fasi di test del metodo avevo incluso nei campioni da spedire a Siena anche un set di campioni “vecchi” che abbiamo utilizzato come controllo. Erano 50 campioni di sangue raccolti nell’inverno del 2017 e che mi servivano per “convincermi” della bontà del test. Sono risultati tutti negativi.

Inoltre, nel contesto dello studio dell’Istituto Nazionale dei Tumori, sono stati testati anche i campioni di luglio 2019 e hanno dato tutti esito negativo, supportando la mancanza di cross-reattività con altri anticorpi non specifici.

Come mai, quando si va a testare la capacità degli anticorpi, solamente sei campioni risultano positivi al test di neutralizzazione in-vitro?

I concetti di positività (al test ELISA) e di neutralizzazione (in vitro) sono distinti. Il test ELISA verifica la presenza degli anticorpi, il test di neutralizzazione invece indaga la capacità di tali anticorpi di contrastare l’infezione virale di cellule in coltura. Nel nostro studio sono stati identificati 111 soggetti positivi per gli anticorpi anti SARS-CoV-2 (IgG o IgM), e soltanto sei tra questi mostrava attività neutralizzante.

Innanzitutto ci tengo a sottolineare, perché molto importante per la corretta interpretazione dei dati prodotti nel nostro lavoro, che i sieri da noi analizzati appartengono a soggetti asintomatici. E questa credo sia la grande differenza rispetto agli altri studi, anche a quelli cui si fa riferimento per inficiare i nostri dati. Infatti la risposta a questa domanda la si trova proprio in uno dei due articoli citati da Antonella Viola e Guido Poli (Piccoli et al, Cell, 2020). Citando nello specifico l’articolo si evince che, dai saggi di neutralizzazione effettuati:

…Sebbene il 77% delle persone ospedalizzate avesse titoli anticorpali in grado di bloccare il legame di SARS-CoV-2 RBD ad ACE2 in modo efficiente (BD80> 10), solo il 18% e l'11% degli individui sintomatici e asintomatici non ospedalizzati aveva anticorpi in grado di interferire fortemente con il legame ad ACE2. La proporzione di individui non ospedalizzati con anticorpi in grado di bloccare il legame del virus con ACE2 era correlata con il titolo anticorpale di anti-RBD, che correlava con la gravità dei sintomi. Questi risultati suggeriscono che, sebbene tutti gli individui infettati da SARS-CoV-2 possano produrre anticorpi specifici per l’RBD di SARS-CoV-2, potrebbero non essere dotati di sufficiente avidità o non essere presenti a una concentrazione sufficientemente alta per bloccare efficacemente il legame dell'RBD con l'ACE2

Questo mi sembra chiarire che le due informazioni (ELISA e microneutralizzazione) vanno prese una in completamento dell’altra in modo integrato, e un risultato non invalida l’altro.

Perché il dato di sieroprevalenza nazionale (dato ISTAT), raccolto dopo la prima grande ondata di contagi, riporta nella popolazione italiana una sieroprevalenza del 2,5%, e nel nostro studio invece si arriva al 10%?

Innanzitutto nello studio ISTAT la frequenza del 2.5% nazionale (7.5% in Lombardia) si riferisce solo alle IgG, che nel nostro studio risultano positive nel 1.6% dei campioni. ISTAT non ha mai testato le IgM. Inoltre, in uno studio (lo studio UNICORN, che si occupa di indagare le immunoglobuline in una popolazione di soggetti asintomatici o paucisintomatici) che verrà pubblicato il 18 novembre su Scientific Reports (Milani et al.), noi abbiamo mostrato che soltanto il 20% dei soggetti con tampone positivo sviluppa IgG anti-RBD e che soltanto il 50% dei soggetti asintomatici con IgG anti-RBD positive poi le mantiene a distanza di otto settimane. La prevalenza dei positivi nella popolazione, perciò, potrebbe anche oscillare in alcune fasi della pandemia.

Perché mancano evidenze clinico-epidemiologiche di un sovraccarico del sistema sanitario di patologie respiratorie compatibili con Covid-19 fino a febbraio 2020?

Sebbene manchino le evidenze di sovraccarico, non è del tutto vero che manchino evidenze clinico-epidemiologiche. I dati dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, per esempio, per quanto riguarda i ricoveri per “polmoniti anomale con agente non specificato” conta, a fronte di 29 casi registrati nel mese di novembre del 2018, 43 a novembre 2019, con un incremento del 48%. A dicembre stesso andamento: 29 nel 2018 e 42 nel 2019, anche in questo caso una crescita del 48%. All’ospedale di Alzano si era passati da 62 “polmoniti anomale da agente non specificato” del bimestre dicembre 2018/gennaio 2019 a 91 casi nello stesso bimestre dell’anno successivo, un incremento del 50% che appare vicinissimo a quello registrato al Papa Giovanni su novembre e dicembre.

A volte purtroppo i segnali, fino a che non diventano drammaticamente percepibili, si trovano soltanto quando li si cerca.

In conclusione mi permetto di condividere con voi una riflessione. Questo studio nasce con lo scopo di porre l’attenzione su un aspetto finora poco indagato della pandemia. L’intento vuole essere quello di aprire il dibattito (caspita se ci siamo riusciti!) e di stimolare la promozione di ulteriori studi che possano confermare i nostri risultati oppure, perché no, smentirli. Lasciamo che siano i dati, e non le interpretazioni, a raccontarci la storia.

 

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