Lo scorso gennaio aveva fatto molto scalpore la scoperta del team di Pieter van Dokkum (Yale University) di 47 nuove galassie nell’ammasso della Chioma, un affollato ammasso di galassie posto a circa 320 milioni di anni luce da noi in direzione della costellazione della Chioma di Berenice. Gli autori della scoperta, pubblicata su Astrophysical Journal Letters (qui il paper), avevano impiegato per la loro survey un sistema ottico tanto insolito quanto estremamente efficace. L’innovativo apparecchio di ripresa, chiamato Dragonfly Telephoto Array, è infatti formato da una batteria di dieci obiettivi fotografici da 400 mm, commercializzati da Canon, in grado di riprendere simultaneamente lo stesso oggetto astronomico. Oltre a un costo davvero competitivo per gli standard astronomici, questo sistema ottico - dall’aspetto molto simile all’occhio di una libellula (dragonfly, in inglese) - ha il vantaggio di fornire immagini che possono essere elaborate per rimuovere la luce indesiderata rendendo in tal modo visibili strutture estremamente deboli. Proprio le caratteristiche che servivano per riuscire finalmente a stanare le cosiddette UDG (Ultra Diffuse Galaxies), sparsi agglomerati di stelle che, per poter stare assieme e non essere disgregate dall'azione gravitazionale delle galassie vicine, devono necessariamente poter contare, in proporzione, sulla presenza di molta materia oscura.
Dettagliate osservazioni spettroscopiche effettuate con il telescopio Keck e la fortunata coincidenza che una delle 47 galassie individuate da van Dokkum era presente in riprese della Hubble Space Telescope Advanced Camera hanno permesso non solo di stabilire l'effettiva appartenenza delle galassie all'ammasso della Chioma, ma anche di chiarire come simili galassie, pur avendo dimensioni simili alla Via Lattea, possiedano una popolazione stellare 1.000 volte inferiore. Questo comporta che, per sopravvivere in un ammasso di galassie affollato come quello della Chioma, tali galassie debbano contenere materia oscura in quantità superiore alla media.
Decisamente più scalpore, qualche settimana fa, ha fatto la notizia della scoperta, sempre nell'ammasso della Chioma, di un numero di gran lunga più elevato di Ultra Diffuse Galaxies. L'analisi dei dati d'archivio delle osservazioni effettuate con il telescopio Subaru, infatti, ha permesso al team di ricercatori della Stony Brook University e del National Astronomical Observatory of Japan coordinati da Jin Koda di individuare una popolazione di 854 nuove galassie appartenenti alla classe delle UDG.
Nello studio, pubblicato a fine giugno su Astrophysical Journal Letters, Koda e collaboratori riportano che quasi il 40% di queste galassie ultra oscure ed estremamente diffuse hanno dimensioni paragonabili a quelle della Via Lattea e che la loro distribuzione si concentra nelle regioni centrali dell'ammasso della Chioma. Una simile collocazione suggerisce come la maggior parte di esse debba far parte di quell'ammasso da lungo tempo e non si tratti dunque di acquisizioni recenti. La lunga appartenenza all'ammasso della Chioma e la conseguente longevità di queste galassie verrebbe confermata anche dalla presenza in esse di popolazioni stellari vecchie e dalla distribuzione spaziale simile a quella di altre galassie più brillanti presenti nell’ammasso (qui si può accedere al paper completo).
Il loro aspetto particolarmente scuro sarebbe dovuto al fatto che, nel corso del processo - in gran parte ancora ignoto - che ha portato alla loro formazione o in un'epoca successiva, a queste galassie sia stato sottratto il gas necessario alla produzione stellare. Vista la loro collocazione all'interno dell'ammasso è molto probabile che di tale ammanco possa essere responsabile proprio l'ambiente estremamente disturbato in cui risiedono. Molti i possibili meccanismi in grado di operare un simile svuotamento, dalle pesanti interazioni gravitazionali tra i membri dell'ammasso alle tremende onde d'urto esercitate dalle esplosioni di supernovae.
Nonostante la criticità ambientale, però, queste galassie così povere di stelle sono riuscite comunque a sopravvivere. Come hanno fatto? Ci può essere d'aiuto una loro caratteristica sottolineata proprio da Jin Koda: «Non solo queste galassie hanno un aspetto molto diffuso, ma sono molto probabilmente avvolte da qualcosa di molto massiccio.» La spiegazione della loro longevità, insomma, potrebbe essere nascosta proprio nella loro composizione, con la presenza di una cospicua quantità di materia oscura che agirebbe come una sorta di fattore di protezione contro il loro dissolvimento. Non è dunque difficile comprendere come, per i ricercatori, il prossimo indispensabile passo per chiarire la storia delle Ultra Diffuse Galaxies debba essere quello di riuscire a definire l'ammontare del loro contenuto di materia oscura.
Molto interessanti, infine, gli scenari che si potrebbero aprire se si dovesse avverare la previsione di Koda: «La scoperta di queste galassie può essere la punta di un iceberg. Di queste fioche galassie immerse in grandi quantità di materia oscura ne potremo scoprirne ancora di più, riuscendo in tal modo a portare alla luce questo lato oscuro dell'Universo.»