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Ecco dove si nasconde il virus dell’HIV

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Sappiamo da tempo che il virus dell’immunodeficienza umana (HIV-1) si integra preferenzialmente in alcuni geni della cellula ospite, ma il motivo per cui il virus scelga questi geni e non altri tra tutte le regioni trascrizionalmente attive della cellula bersaglio rimane un mistero.

È quello che ha indagato un gruppo di ricercatori italiani che, grazie alle loro importanti scoperte, ha ottenuto la pubblicazione sull’ultimo numero di Nature.
Il progetto, ideato e proposto da Marina Lusic, ora Principal Investigator presso il Centro Malattie Infettive della Clinica Universitaria di Heidelberg (Germania), è stato realizzato da Bruna Marini e co-autori presso il laboratorio dell’International Centre for Genetic Engeneering and Biotechnology (ICGEB) di Trieste diretto da Mauro Giacca. La realizzazione del progetto è stata possibile grazie all’utilizzo di fondi del Ministero della Salute tramite il Primo Bando Giovani Ricercatori e il Programma per la ricerca AIDS Biennio 2009-2010 vinti da Marina Lusic e di finanziamenti ministeriali di Mauro Giacca.

Dopo aver descritto in un precedente lavoro (Lusic et al, Cell Host Microbe 2013) che durante il fenomeno della latenza virale il virus HIV-1 si nasconde dai farmaci nelle strutture nucleari chiamata PML Nuclear Bodies, gli autori hanno stavolta indagato dove risiede HIV-1 durante la fase produttiva dell'infezione dimostrando che l’integrazione del virus avviene nella parte più esterna del nucleo, in stretta corrispondenza con il poro nucleare, una regione che mostra evidenti segnali di cromatina trascrizionalmente attiva prima dell’infezione.

Analizzando le liste di geni prediletti per l’integrazione di HIV-1 derivate da sei differenti pubblicazioni, gli studiosi hanno ricostruito un gruppo di 156 trascritti bersaglio in cellule T attivate, la maggior parte dei quali localizzati poco al di sotto della membrana nucleare. Al contrario il virus “disdegna” le regioni di eterocromatina nei domini nucleari associati alla laminina e i geni localizzati centralmente nel nucleo. La maggior parte dei geni bersaglio di HIV-1 sono gli stessi in diversi tipi cellulari ma esistono sottili differenze, soprattutto legate alla diversa collocazione dei geni rispetto alla cellula al momento dell’infezione.

L’integrazione del virus a livello del poro nucleare è fondamentale per la regolazione trascrizionale del suo genoma che dipende dall’associazione del DNA di HIV-1 con le nucleoporine della cellula ospite. Ciò significa che la topografia nucleare di HIV-1 è essenziale per il suo ciclo vitale.

Ma perché il virus HIV-1 si integra a livello del complesso del poro nucleare? Secondo gli autori è una questione di opportunismo, cioè il virus utilizza semplicemente i primi geni che trova sul suo percorso all’ingresso nella cellula per ottenere una rapida integrazione nel DNA genomico data anche la scarsa vitalità della sua integrasi. Lo conferma anche Giovanni Maga, Responsabile della Sezione Enzimologia del DNA e Virologia Molecolare presso l'Istituto di Genetica Molecolare IGM-CNR di Pavia che aggiunge: “Il poro nucleare è la porta d’ingresso al nucleo per tutto ciò che proviene dal citoplasma, soprattutto le grosse molecole. Nel suo ciclo vitale il complesso del DNA virale che è stato retrotrascritto e deve andare a integrarsi nel genoma della cellula ospite passa proprio dal poro nucleare per cui è altamente probabile che gran parte di questo meccanismo dipenda da un equilibrio termodinamico. Seguendo una logica estremamente lineare, abbiamo una molecola che ha la necessità di integrarsi nel DNA cellulare e si ferma nel primo ambiente favorevole che incontra”.

E aggiunge: “Il virus è un parassita quasi perfetto, un grandissimo opportunista e i meccanismi selezionati dall’evoluzione sono quelli che consentono il massimo risultato col minimo sforzo. Per il virus è importante nascondere il suo DNA all’interno di quello della cellula in zone che ne consentano poi l’espressione in maniera semplice e rapida. È quindi possibile che l’architettura stessa del nucleo e la conformazione rilassata della cromatina nelle regioni vicino al poro nucleare rendano questi siti altamente appetibili. Inoltre non ci sono elementi che ci inducono a pensare che l’integrazione di HIV-1 avvenga preferenzialmente sulla base dell’identità dei geni e non ci siano quindi sequenze segnale specifiche”.

Secondo Maga gli eventi di integrazione del DNA di HIV-1 sono da chiarire in dettaglio, soprattutto per gli aspetti che non avvengono solo a carico dell’integrasi virale ma che richiedono l’intervento di proteine cellulari. Tra di esse LEDGF/p75, un fattore ausiliario noto per aumentare l’efficienza di integrazione, e la nucleoporina Nup153 strettamente associata al poro nucleare. “Il maggior pregio del lavoro di Giacca è proprio quello di averci fornito preziose informazioni sulla localizzazione cellulare di questi importanti cofattori all’integrazione di HIV-1” commenta il ricercatore.

Infatti, per poter attuare strategie terapeutiche di blocco della proliferazione di HIV-1 è importante conoscerne il meccanismo d’azione. Capire il funzionamento del virus significa conoscere il suo ciclo vitale e comprendere come si relaziona con l’ambiente della cellula che infetta. Benché sia essenzialmente un lavoro di ricerca di base, l’articolo di Nature indaga alcuni aspetti fondamentali del ciclo vitale del virus e nel contempo ci consente di fare luce su alcuni aspetti importanti. In particolare, una nozione che può avere un’applicazione immediata deriva proprio dallo studio della proteina LEDGF/p75, già bersaglio di farmaci antivirali attualmente in fase di sperimentazione. Nello studio di Giacca viene approfondito il meccanismo e soprattutto chiariti il contesto, la localizzazione spaziale e la tempistica con i quali questo cofattore interferisce nell’integrazione di HIV-1. L’inibizione di LEDGF/p75 ne impedirebbe l’interazione con l’integrasi e potrebbe portare anche all’identificazione di altre proteine coinvolte nell’integrazione da ricercare in quella specifica zona del nucleo. Inibire l’integrazione significherebbe limitare la proliferazione del virus e ridurre la formazione dei serbatoi virali che nascondono il genoma di HIV-1 per anni, impedendo così la manifestazione della malattia nel soggetto infetto.

Conclude Maga: ”Fa piacere che un lavoro di tale livello sia stato realizzato da un team prevalentemente italiano e soprattutto sul territorio nazionale. È un esempio di come laddove si supporti la ricerca in maniera adeguata si riescano ad ottenere grandi risultati anche in strutture italiane, dimostrando la capacità dei nostri ricercatori di essere assolutamente competitivi nel mondo della ricerca”.


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