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Cern ha sessant’anni, ma non li dimostra

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Il 29 settembre 1954, sessant’anni fa, su iniziativa di dodici diversi paesi, veniva inaugurato a Ginevra il Centro europeo di ricerca nucleare. Quelli che ormai tutti conoscono come il Cern era destinato a diventare il più grande laboratorio scientifico del mondo. Il centro che ospita la più grande e potente macchina mai costruita dall’uomo (LHC), appollaiata a cavallo del confine di due stati, la Svizzera e la Francia, ma ad alcune decine di metri di profondità.
Un laboratorio europeo con una vocazione universalistica che oggi ospita oltre la metà dei fisici delle alte energie dell’intero pianeta.
Un centro dove i fisici italiani sono stati e sono tuttora protagonisti. È qui, per esempio, che, nel luglio 2012 Fabiola Gianotti, leader dell’esperimento ATLAS insieme a tanti altri (primo tra tutti da Guido Tonelli, fino a poco tempo prima leader dell’esperimento MCS) ha scoperto il “bosone di Higgs” e, prima scienziata italiana, si è guadagnata la candidatura alla copertina del Time quale “person of the year”.

Proprio la scoperta del “bosone di Higgs” dimostra che il Cern ha sessant’anni, ma non li dimostra.
Anzi, è al top planetario della fisica delle alte energie ed è più che mai il simbolo stesso della «big science», di quella grande scienza realizzata da comunità di centinaia di scienziati di diversi paesi, riuniti intorno a macchine enormi costruite con una inedita profusione di risorse.
Ma non basta, il Cern con migliaia di scienziati europei e non solo europei che da sei decenni lavorano a progetti comune è un lungo ponte di pace. E giustamente Guido Tonelli suggerisce che Oslo gli assegni il Nobel non per meriti scientifici, ma per meriti umanitari.

In realtà già alla nascita il Cern mostra di essere qualcosa di più del fiore all’occhiello della fisica europea (e non sarebbe stato davvero poco). Nove anni dopo la guerra più disastrosa e crudele che l’umanità abbia mai conosciuto, il laboratorio si propone come la manifestazione, la prima in assoluto, dello “spirito europeo”.
Di quell’unità e di quella tensione verso la costruzione pacifica di futuro comune di cui le nazioni del Vecchio Continente – o, almeno, alcuni loro uomini illuminati – avvertono un bisogno disperato dopo le devastazioni e le tragedie della Seconda guerra mondiale.
Fare qualcosa insieme, dopo essersi combattuti per cinque lunghi anni: all’inizio degli anni Cinquanta questa era l’aspirazione di molti in Europa. Ma, come spesso è accaduto nella storia, tra i primi a cogliere quel “bisogno di unità” è la comunità scientifica – tra i cui valori fondanti il sociologo americano Robert Merton, proprio in quegli anni, va individuando le dimensione universalista. Un valore predicato peraltro da Francis Bacon già nel Seicento, quando il filosofo e politico inglese sosteneva che la «nuova scienza» non deve essere a beneficio di questo o di quello, ma dell’intera umanità.

A guidare all’inizio degli anni ’50 del XX secolo il piccolo nucleo di pionieri del Cern e dello “spirito europeo” ci sono alcuni tra i più grandi fisici del Vecchio Continente. I francesi Louis De Broglie, Pierre Auger, Lew Kowarski, il tedesco Werner Heisenberg. Ma c’è, soprattutto, un italiano: Edoardo Amaldi. Che non a caso del centro ginevrino diventa il primo Direttore Generale.

Edoardo Amaldi è uno di quei “ragazzi di via Panisperna” che,  negli anni ’30 del XX secolo, hanno proiettato la fisica italiana ai vertici assoluti della fisica mondiale. Tra il 1934 e il 1938 quel formidabile gruppo ha fatto di Roma il punto più avanzato degli studi sul nucleo atomico, ma poi si è andato rapidamente disperdendo per una serie di concause (l’incapacità del fascismo a sostenere lo sviluppo della scienza, il varo delle leggi razziali, la guerra). Amaldi è l’unico, tra i collaboratori di Fermi, a restare in Italia e a farsi carico, a conflitto ultimato, della «ricostruzione della fisica italiana».
La sua è un’azione lucida e incessante. L’opera riesce, forse al di là di ogni pur rosea previsione. Intorno a Giorgio Salvini, a Gilberto Bernardini e allo stesso Amaldi la fisica italiana, nel campo delle particelle elementari e non solo, raggiunge di nuovo vette d’eccellenza, talvolta assoluta. Tuttavia Amaldi comprende che solo in un contesto continentale, solo con uno “spirito europeo” appunto, è possibile competere con gli Stati Uniti e continuare a realizzare fisica d’avanguardia in Europa.
D’altra parte Edoardo Amaldi sa che la scienza  può (deve) essere il collante di un’intera comunità: la comunità  dei popoli europei. Che la casa comune della fisica europea può proporsi come un esperimento e, insieme, un catalizzatore della casa comune europea.
Il progetto di Amaldi è un grande progetto scientifico e un ambizioso progetto politico allo stesso tempo.

Il Cern nasce da queste intuizioni, condivise con altri grandi fisici. E dalla capacità, che è di Amaldi più di ogni altro, di concretizzarle. Di dare loro un corpo. Di vincere, all’inizio degli anni ’50, l’opposizione di molti altri grandi fisici, europei e soprattutto americani, e lo scetticismo di molti politici sparsi per il continente. È merito soprattutto di Amaldi (e dell’appoggio che riceve dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, il nostro CNR) se quei formidabili ostacoli vengono superati e se il Cern, infine, nasce.
Nel dire queste cose non pecchiamo certo di italico sciovinismo. Il ruolo di Amaldi è riconosciuto da tutti. E, infatti, l’italiano è eletto nel 1952 primo Direttore Generale di quel Cern che deve essere ancora costruito e che, il 29 settembre 1954, sarà appunto inaugurato.
Amaldi è il pioniere, peraltro, della lunga e felice presenza degli «italiani al Cern», per citare il titolo di una bel libro pubblicato qualche anno fa. Una presenza che raggiunge, in seguito, due apici scientifici con Carlo Rubbia, vincitore nel 1984 del premio Nobel per la scoperta a Ginevra dei «bosoni intermedi», e con Fabiola Gianotti (e Giulio Tonelli) per la già citata scoperta del «bosone di Higgs». E che raggiunge altri due apici politici con lo stesso Carlo Rubbia e con Luciano Maiani, che assumeranno la guida del centro di fisica ginevrino rispettivamente tra il 1989 e il 1993 (Rubbia) e tra il 1999 e il 2003 (Maiani).

Il laboratorio europeo deve, dunque, molto alla fisica italiana. Ma la fisica italiana deve moltissimo al Cern. Forse la sua stessa sopravvivenza a livelli altissimi. Quando, infatti, all’inizio degli anni ’60 in Italia una serie di «incidenti» e di interventi politici elimina dal palcoscenico della scienza d’eccellenza e dell’industria competitiva nell’alta tecnologia, in rapida successione, Enrico Mattei e la sua idea di Eni, Felice Ippolito e settore nucleare, Domenico Marotta e la sua idea dell’Istituto Superiore di Sanità, il settore di ricerca elettronica dell’Olivetti, la ricerca di punta nella chimica, solo i fisici dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – un’altra creatura di Amaldi – riescono a «salvarsi». E riescono a salvarsi proprio perché sono ormai legati alla rete europea della ricerca, collaborano col Cern e, molto spesso, lavorano al Cern.
Tuttavia sarebbe sbagliato guardare al Cern solo con occhio italiano. Esso è, a tutti gli effetti, un laboratorio dell’Europa aperto al mondo (22 sono oggi gli Stati membri dell’Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare e molti altri quelli associati), che ha raggiunto risultati non solo nell’ambito della politica e della sociologia della grande scienza. Ma anche (e soprattutto) nel campo più pieno della fisica sperimentale. Abbiamo già ricordato le scoperte dei «bosoni intermedi» e del «bosone di Higgs» e, quindi,  la clamorosa conferma di quel Modello Standard della Fisica delle alte energie che unifica l’interazione debole e l’interazione elettromagnetica, due delle quattro forze fondamentali della natura.

Occorrerebbe ricordare, ancora, i risultati ottenuti da Georges Charpak nella tracciabilità delle particelle, che gli meritano un Nobel nel 1992. O, ancora, la  sintesi di atomi di antimateria, del plasma di quark e gluoni (venti volte più densi della più densa materia conosciuta, quella neutronica), della conferma diretta della violazione dalla parità CP, lo studio della fisica dei neutrini (in collaborazione con il Laboratorio Nazionale che l’INFN  possiede al Gran Sasso) con l’osservazione della loro “oscillazione” e altri risultati che, magari, dicono poco ai non esperti ma moltissimo ai fisici.
E, tuttavia, il Cern è un centro di fisica di base dove si produce innovazione tecnologica (massiccio, per esempio, è l’impiego di magneti superconduttori nei suoi grandi acceleratori) e innovazione culturale.
È nel centro ginevrino che, per esempio, è stato inventato (e gratuitamente diffuso) il "www", il linguaggio del web che consente a centinaia di milioni di computer di tutto il mondo di connettersi tra loro e formare un’unica, grande rete.

Ma nell’immaginario collettivo il Cern è soprattutto il centro delle grandi macchine acceleratici. Le più grandi del mondo. A iniziare dal LEP,  che dieci anni fa ha lasciato il posto (lo spazio fisico) a LHC. Si tratta di due enormi ciambelloni (27 chilometri di circonferenza che corrono nel sottosuolo a cavallo del confine tra Svizzera e Francia) che hanno assolto (il LEP) e assolvono (LHC) il compito di accelerare fino a velocità prossime a quella della luce fasci di particelle microscopiche. Con un’infinità di obiettivi. Il principale dei quali oggi è, forse, “la fisica oltre il Modello Standard”.
Aprire, cioè, un nuovo capitolo. Perché il Cern ha sessant’anni, ma ha ancora lo spirito generoso e curioso di un adolescente.

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