fbpx la vita sulle isole di plastica | Scienza in rete

C'è vita sulle isole di plastica

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

Le isole di rifiuti di plastica che galleggiano nei nostri oceani trasportano organismi costieri che trovano così il modo di sopravvivere e persino riprodursi al largo, formando colonie con specie tipiche del mare aperto. Un inaspettato e inquietante risvolto dell' inquinamento antropogenico.

Credits: photo by Naja Bertolt Jensen on Unsplash

Si stima che negli oceani finiscano ogni anno qualcosa come 14 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, che costituiscono circa l’80% dei rifiuti marini. Plastiche di tutte le forme e dimensioni, dalle particelle delle microplastiche a enormi reti da pesca riempiono i nostri mari e li contaminano, con un effetto letale ormai tristemente risaputo. Inaspettata, invece, è la scoperta che la plastica galleggiante offre un nuovo habitat ad alcune specie tipiche degli ambienti costieri, consentendo loro di vivere laddove la loro biologia non permetterebbe né di arrivare né di sopravvivere: lo dimostra uno studio pubblicato su Nature Communications.

La scoperta che la plastica possa essere colonizzata da organismi costieri e che offre un habitat per la loro persistenza risale allo tsunami in Giappone del 2011: rifiuti plastici trascinati in mare dalla violenza del maremoto sono infatti approdati sulle coste nordamericane trasportando a bordo ben 300 diverse specie costiere del Sol Levante. Il che, di per sé è già piuttosto sorprendente. Ma ancora più sbalorditivo è stato per i ricercatori verificare che le specie costiere non solo vengono trasportate dalle plastiche alla deriva, ma riescono anche a sopravvivere nonché a riprodursi in pieno oceano. Grazie alla collaborazione con Ocean Voyages Institute, una ong che rimuove la plastica galleggiante organizzando apposite spedizioni, i ricercatori hanno potuto esaminare i rifiuti che formano il Great Pacific Garbage Patch, l’immensa isola galleggiante di plastica che si trova nel vortice subtropicale del nord Pacifico (North Pacific Subtropical Gyre), qui hanno trovato quelle che hanno ribattezzato “comunità neopelagiche”: associazioni inedite e vitali di specie pelagiche e costiere.

Isole artificiali

Normalmente l’oceano aperto è abitato dai neuston, organismi che galleggiano o nuotano appena al di sotto della superficie, adattati a vivere nell’interfaccia aria-acqua: esempi di questi organismi sono alcune meduse, come la barchetta di San Pietro o la caravella portoghese , i tronchi e gli intrecci di alghe, così come la pelle dei cetacei e il carapace delle tartarughe marine sono invece la casa di diverse specie di cirripedi e dei minuscoli granchi Colombo. Gli intrecci di reti da pesca abbandonate che avvolgono tra le loro trame contenitori e buste di plastica ospitano sia questi abitanti delle superfici d’alto mare che molluschi e crostacei costieri: i ricercatori hanno contato più di 40 specie differenti. Non si sa a livello ecologico cosa comporti questa inusuale coabitazione. Una delle maggiori preoccupazioni degli scienziati è che la plastica offra agli organismi costieri un enorme potenziale di dispersione: l’oceano aperto non è più una barriera invalicabile se non in condizioni straordinarie, e questo apre un vaso di pandora per la diffusione di specie aliene invasive, pronte alla colonizzazione di nuovi habitat. Inoltre è una sorpresa comprendere che questi animali costieri riescano ad alimentarsi, quando si pensava che necessitassero di fonti di cibo che caratterizzano le coste.

Ora, le isole galleggianti non sono una novità per gli oceani: zattere formate da un groviglio di tronchi, rami, sabbia, pietre pomici, alghe e semi sono sempre esistite. E di sicuro hanno portato con loro molluschi, crostacei, anemoni e tante altre specie che normalmente dipendono da un ambiente costiero. Ma la natura effimera di queste strutture naturali non consentiva certo la persistenza in alto mare di questi organismi, anche se, sicuramente, in alcuni casi e stagioni specifiche, alcune specie hanno usato queste isole fluttuanti come una sorta di autostop per arrivare su altre zone costiere. Ma appunto si trattava di qualcosa di occasionale. La plastica però non è biodegradabile: è resistente, dura a lungo nel tempo.

La plastisfera

Quindi le isole di plastica sono definibili in qualche modo come dei veri e propri nuovi habitat, colonizzati da specie che in qualche modo riescono a trovare di che nutrirsi pure in un contesto non programmato dalla loro storia evolutiva. È l’ennesima rottura dei paradigmi della biologia, i cambiamenti dell’ambiente antropogenici ci rivelano le incredibili capacità di adattamento di alcune specie più versatili e, per così dire, intraprendenti. Una novità per gli organismi pluricellulari, ma a dire il vero i biologi marini già da tempo hanno scoperto che plastiche fluttuanti di ogni forma e dimensione sono colonizzate da diversi tipi di microrganismi: ne sono stati contati più di 1 000 specie diverse. La complessità di queste forme di vita microscopiche è tale che nel 2013 è stato coniato il termine plastisfera, in analogia con la biosfera. Questo perché il biofilm che avvolge la plastica è complesso: organismi che fotosintetizzano, prede, predatori, simbionti, parassiti e decompositori. Insomma, la plastica è un vero e proprio ecosistema, che comprende tutti i possibili ruoli ecologici. La sua particolarità è che si tratta di un ecosistema interamente antropogenico.

Alcuni di questi microrganismi stanno evolvendo enzimi che permettono loro di degradare la plastica, letteralmente nutrirsi di essa. La scorsa estate sono stati scoperti all’interno di diverse comunità della plastisfera due batteri (Thioclava sp. BHET1 e Bacillus sp. BHET2) in grado di degradare il Polietilene tereftalato o PET. La presenza di organismi che si nutrono di plastica è un indicatore di quanto severo è l’inquinamento e dei suoi effetti evolutivi. Un recentissimo studio ha invece eseguito un sequenziamento sistematico e a livello globale di campioni di DNA provenienti da diversi ecosistemi inquinati, trovando trentamila diversi enzimi in grado di degradare dieci diversi tipi di materiali plastici, con variazioni legate allo specifico tipo di inquinante predominante nell’ambiente, nonché al livello di inquinamento del sito.

Montagne di plastica?

Non è finita qui: la plastica potrebbe letteralmente andare a formare in un lontano futuro uno strato geologico. «Nel 2013, sulle coste delle isole Hawaii, in particolare a Kamilo Bay, sono state trovate delle formazioni rocciose contenenti plastica, dette plastiglomerati» racconta Lucilla Galatà, mediatrice del MUSE, Museo delle Scienze di Trento. «In alcuni casi si tratta di plastica fusa su formazioni rocciose preesistenti, in altri invece di una matrice plastica: a contatto con una fonte di calore, come i falò, ma in zone vulcaniche anche la lava, la plastica si fonde e solidificando fa da collante, inglobando sabbia, conchiglie, sassi, rifiuti. Esistono plastiglomerati di diverse forme, dimensioni e peso». Nell’ esposizione permanente recentemente rinnovata sul tema della sostenibilità, il MUSE ospita alcuni esempi di plastiglomerati, provenienti proprio dalle Hawaii, precisamente raccolti nel corso di operazioni di pulizia delle spiagge dalle ong Sustainable coast Hawaii e Hawaii Wildlife fund. «I plastiglomerati possono essere considerati uno dei marker dell’inizio dell’Antropocene, sono oggetti simbolici di come materiali di produzione umana entrino a fare parte della geologia. Resta ancora da comprendere cosa questo comporti in termini di impatto sul ciclo del terreno» spiega Galatà.

Plastiglomerati hawaiani. Foto di F. Pupin - MUSE Museo delle scienze
 

Chissà se anche le rocce di plastica diventeranno un substrato da colonizzare, come le isole di plastica. Quello che è certo è che sempre più le modifiche antropogeniche del pianeta stanno svelando conseguenze inaspettate. Così la plastica, emblema linguistico di ciò che è finto e sintetico, diventa componente della geologia, permette sopravvivenze inedite e guida nuovi adattamenti. L’evoluzione è un continuo divenire, un continuo compromesso a quel che l’ambiente riserva, e nell’epoca dominata dall’impronta umana e dagli scarti di quel che agli umani serve, il cambiamento si traduce per molte, troppe specie in sconfitta. La plastica in mare uccide delfini, balene, foche e otarie, invertebrati di ogni tipo, pesci, tartarughe, uccelli marini, riempie i loro stomaci impedendo loro di nutrirsi, li soffoca avvinghiandosi ai loro corpi, impedisce gli spostamenti. Ma per altri organismi diventa un’occasione. E a cosa ciò porterà è tutto da scoprire.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

"We did not do a good job in explaining how flexible biology can be," interview with Frans de Waal

Frans de Waal

Eva Benelli and Anna Romano interview Fran de Waal about his latest book, Different. Gender issues seen through the eyes of a primatologist.

Photo of Catherine Marin

After reviewing Different. Gender issues seen through the eyes of a primatologist, we wanted to have a chat with the author, the primatologist Frans de Waal, to find out what motivated him to deal with gender issues and to get his opinion on research in this and other fields of ethology. Here is our interview.