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La salute del Mar Mediterraneo

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Secondo la strategia marina europea, entro il 2020 si sarebbe dovuto raggiungere un buono stato di conservazione dei mari europei, obiettivo purtroppo  ancora lontano. Tantissime le minacce alla biodiversità, inquinamento, pesca intensiva e catture accidentali. Ma come stanno oggi i mammiferi e gli uccelli che popolano il Mediterraneo?

Uno zifio nel santuario Pelagos. Crediti foto: Fondazione CIMA

Il Mar Mediterraneo  rappresenta appena lo 0,7% della superficie marina globale, ma si stima che ospiti circa il 10% delle specie marine 1. Proprio per la ricchezza delle sue risorse, sono molte le attività economiche che da esso dipendono: pesca, turismo, produzione di energia rinnovabile e non. La crescita delle pressioni antropiche è sempre crescente, per il Mediterraneo e in generale per tutti i mari. Proprio per tutelare e ripristinare la funzionalità di questi ecosistemi, l’UE ha sviluppato nel 2008 una direttiva, la strategia marina , con l’ambizioso obiettivo di ottenere, entro il 2020 uno “buono stato di conservazione per i mari europei”, target che è però ancora lontano all’orizzonte, come rivela il report pubblicato a giugno 2020. Ma come stanno, oggi, le specie che popolano il Mediterraneo?

In volo sul Mediterraneo

Non è semplice studiare i cetacei nel loro ambiente naturale, anche perché il mare è un ambiente difficilmente accessibile. I programmi di monitoraggio utilizzano barche o aerei: «Nell’ottobre del 2020 abbiamo completato un survey aereo,  in un’area di circa 350 mila chilometri quadrati comprendente tutto il Tirreno, dalla Liguria fino alle coste della Sicilia e della Sardegna meridionale. Il survey fa parte delle attività di monitoraggio relative alla strategia marina che ISPRA sta sviluppando per conto del Ministero dell’Ambiente», racconta Giancarlo Lauriano , ricercatore presso l’area tutela della biodiversità marina e aree marine protette di ISPRA.

Survey aereo dei cetacei. Crediti foto G.Lauriano ISPRA.

«Il lavoro consiste nel percorrere con l’aereo delle rotte lineari, lunghe 30-40 mila chilometri, che si distribuiscono uniformemente in un’area di studio definita in funzione delle specie che si vogliono studiare.  Per ogni avvistamento viene identificata la specie, si contano gli individui e vengono stimati i parametri che servono per l’elaborazione dell’abbondanza attraverso modelli matematici, un metodo chiamato distance sampling. Il programma verrà ripetuto fino al 2023, perché per ottenere una buona stima le ripetizioni sono necessarie, e i dati serviranno a definire l’abbondanza e la distribuzione dei cetacei. I survey aerei sono iniziati nel 2009 nel Santuario Pelagos,  per la protezione dei mammiferi marini, un’area compresa tra Italia, Francia e Principato di Monaco. In seguito, abbiamo condotto altre attività nel Tirreno e nello Ionio, ma l’unico bacino che è stato completato interamente è l’Adriatico. Il primo monitoraggio svolto in modo coordinato sull’intera regione è stato condotto nel 2018 grazie ad Accobams, un accordo internazionale che si occupa dei cetacei nel Mar Mediterraneo, Mar Nero e nelle zone atlantiche contigue. I dati raccolti da Accobams sono stati usati da IUCN per una revisione dello stato di conservazione delle specie. «La stenella, per esempio, era considerata a rischio negli anni ’90 a causa delle epidemie di morbillivirus, ma nel 2018 ne sono stati contati più di 600 mila individui», spiega Lauriano.

Il monitoraggio aereo è un’opportunità per stimare anche altre specie di interesse conservazionistico, tra cui la tartaruga Caretta caretta2, e la mobula o diavolo di mare, a rischio di estinzione (come del resto un po’ tutti i pesci cartilaginei, cioè squali e mante) mediterranei, ma anche specie di interesse commerciale come il pesce spada. Sempre in relazione alla strategia marina, e in collaborazione con gli ornitologi di ISPRA, nel corso del monitoraggio aereo sono stati contati anche gli uccelli marini, che non sono affatto immuni ai problemi del mare. «Un lavoro3 pubblicato qualche anno fa analizza il trend delle popolazioni di uccelli marini su scala mondiale dal 1950 al 2010, dimostrando che in sessant’anni hanno subito una diminuzione del 70%. La situazione non è localizzata, è globale: ovunque gli uccelli marini stanno avendo problemi molto grossi» spiega Jacopo Cecere , ricercatore presso l’area per l'Avifauna Migratrice di ISPRA. «Nel Mediterraneo vivono quattro specie di uccelli propriamente definiti marini, specie pelagiche che atterrano solo nel periodo riproduttivo. Di questi, la berta minore, la berta delle Baleari e l’uccello delle tempeste sono in uno stato di conservazione sfavorevole: la berta delle Baleari, in particolare, è uno degli uccelli a maggior rischio di estinzione in Europa. Ma in realtà è complesso definire esattamente lo stato di conservazione di questi animali, perché sono molto longevi (vivono anche 50-60 anni) e quindi, se col monitoraggio si contano le coppie, si rischia di osservare un numero stabile di animali che in realtà non riesce a riprodursi.». Un trend molto negativo e destinato a non migliorare se non si riescono ad arginare le tante minacce per questi specialisti del mare aperto.

Il problema della pesca: dalla diminuzione delle risorse al bycatch

«Il problema principale è il sovrasfruttamento delle risorse ittiche. Nel 1984 l’oceanografo Tim Parsons  scriveva “nessuna forma di inquinamento è in alcun modo paragonabile alla rimozione di 70 milioni di tonnellate di pesce l’anno”. Restiamo impressionati dalla deforestazione e dalla cementificazione, ma tendiamo a sottovalutare l’impatto che abbiamo sull’ecosistema marino. Un recente lavoro4 mostra che il Mediterraneo è una delle zone con maggior conflitto tra attività di pesca e uccelli marini», spiega Cecere. Se le risorse alimentari scarseggiano, gli uccelli adulti non riescono a riprodursi: «Questi uccelli fanno un solo uovo all’anno e, se il pulcino muore o perdono l’uovo, non ne fanno un altro».  Il sovrasfruttamento degli stock ittici, in particolare di pesci e molluschi commerciali, è ovviamente un problema anche per altri predatori, come squali e cetacei. Inoltre, spiega Lauriano, si viene a creare una sorta di competizione che poi sfocia in un conflitto con la pesca artigianale: «I tursiopi imparano ad andare a prendere il pesce dalle reti, e questo crea conflitti con i pescatori che in alcuni casi portano all’uccisione illegale degli animali».

Connesso alla scarsità di cibo c’è il problema del cosiddetto bycatch, o cattura occasionale. «Seguendo i pescherecci, gli uccelli marini possono restare ingannati dal brilluccichio di un amo e rimanere incastrati. Il fenomeno è molto studiato e ci sono dei sistemi che riescono a diminuirne l’incidenza, come piombi che fanno scendere più velocemente l’amo o l’utilizzo di lenze rosse, a vantaggio anche del pescatore (che non ha interesse a pescare uccelli all’amo). Su questo, però, l’Italia è molto indietro perché mancano sia una quantificazione del bycatch che l’adozione di sistemi di precauzione», continua Cecere. Il problema del bycatch interessa anche i mammiferi marini. «Purtroppo, anche se alcuni sistemi di pesca sono vietati da decenni, ancora quest’estate i capodogli sono rimasti impigliati nelle reti spadare vietate alle Eolie , il che purtroppo indica che c’è ancora molta illegalità nel Mediterraneo», spiega Lauriano. Di nuovo, manca un monitoraggio rigoroso che ne quantifichi l’impatto. «Tuttavia, alcuni dati possono essere estrapolati dai dati di spiaggiamento, e l’Università di Pavia ha un database completo che riporta le cause di morte», aggiunge Lauriano.

La terza grande minaccia per gli uccelli marini è la presenza di specie aliene nelle isole. È il caso del ratto, che preda nidiacei e uova. Grazie al grandissimo lavoro portato avanti da progetti finanziati dal programma europeo Life in molte isole italiane si è però riusciti a combattere questa minaccia, attraverso programmi di derattizzazione (su Scienza in Rete ne abbiamo parlato qui).

Un mare di plastica?

Anche l’inquinamento, poi, ha la sua parte nel declino delle specie marine. «L’ingestione della plastica, per esempio, è un problema ben conosciuto da oltre trent’anni; è causa di morte diretta e indiretta, sia per soffocamento che perché induce un senso di sazietà che porta all’inedia gli animali. Nel survey aereo abbiamo raccolto i dati sulla presenza di plastica galleggiante:  è la voce che ha il maggior numero di avvistamenti. E le nostre sono comunque sottostime, se consideriamo che dall’alto si vedono solo i rifiuti di grandi dimensioni, mentre quelli piccoli si confondono con il riflesso del mare», spiega Lauriano.  

«Dal 1960 al 2012, il 60% delle specie di uccelli marini aveva ingerito plastica, con un trend crescente. Questi animali sono infatti sensibili al dimetilsulfide, una sostanza volatile che viene prodotta dallo zooplancton quando si alimenta di fitoplancton. Quindi il dimetilsulfide è usato per identificare le aree dove si trova più pesce. Il problema, però, è che la plastica galleggiante viene ricoperta dalle alghe e di conseguenza dal zooplancton che se ne nutre, producendo dimetilsulfide e attirando gli uccelli» spiega Cecere. Per fortuna, nel Mediterraneo non ci sono situazioni drammatiche come quella degli albatros nell’isola di Midway nel Pacifico, resa famosa da un documentario che mostra la moria di massa dei pulcini nutriti inconsapevolmente dai genitori con pezzi di plastica di ogni tipo. «Non ci sono studi italiani sull’effetto dell’alimentazione dei piccoli nutriti con la plastica, ma con l’Università di Milano e il Parco Naturale Regionale di Porto Conte in Sardegna stiamo facendo uno studio sull’effetto delle microplastiche sull’uccello delle tempeste. Abbiamo raccolto dei rigurgiti dei genitori che alimentano i pulcini; ora li stiamo analizzando per capire quali tipi di polimeri contengono», continua il ricercatore.

Berta maggiore, isole Tremiti. Crediti foto: J. Cecere

E non c’è certo solo la plastica da considerare. Un esempio della diversità di minacce cui sono sottoposti gli animali marini può venire dallo zifio, un cetaceo quasi sconosciuto ai più e piuttosto complesso da studiare anche per i biologi, perché abita in mare aperto e molto raramente si avvicina alle coste. Definito “balena dal becco” in inglese a causa del rostro molto corto, lo zifio vive in gruppi poco numerosi e caccia nelle acque profonde, soprattutto nei canyon sottomarini, dove predilige i calamari. Il Mar Mediterraneo ha una popolazione di zifio distinta geneticamente da quelle oceaniche5 e considerata vulnerabile  al rischio di estinzione dalla IUCN . Un pericolo per questi animali delle profondità marine è rappresentato dall’inquinamento sonoro dovuto alle esercitazioni militari e alle attività estrattive in mare aperto che possono provocare spiaggiamenti di massa, fenomeno che si è più volte verificato a partire dagli anni ’60. E, secondo una ricerca da poco pubblicata su Scientific Reports6 , la salute degli zifi (come quella di altri cetacei) è minacciata anche dall’ingestione di inquinanti organici persistenti e biologicamente attivi, che proprio in virtù della loro tossicità sono ormai banditi. «Il problema è queste sostanze rimangono nell’ambiente a lungo e quindi vengono rimesse sempre in circolo nelle catene alimentari. Gli zifi, essendo predatori di vertice, le accumulano nell’organismo, alcune anche a livelli molto elevati. Gli zifi del Mediterraneo sono quelli più inquinati del mondo», spiega Massimiliano Rosso, ricercatore della Fondazione Cima e coautore dello studio. «Il 20% degli zifi campionati con le biopsie aveva un livello di inquinanti vicino al limite che causa l’immunodepressione, un dato piuttosto allarmante» continua Rosso. «Purtroppo, non disponendo di dati storici, non è possibile dire con certezza quale sia l’impatto sulla dinamica della popolazione».

Timidi ma incoraggianti ritorni

Per fortuna, tra i tantissimi problemi, ci sono anche notizie positive. L’estate scorsa è stata avvistata sulle coste delle isole dell’Arcipelago Toscano, prima a Capraia e poi a Pianosa, la foca monaca, una presenza molto rara nel mare nostrum. «È un po’ difficile capire se l’aumento degli avvistamenti che registriamo in questi anni sia dovuto a un effettivo incremento di individui e della loro distribuzione oppure sia legato all’uso crescente dei social network. Una cosa certa è che questo aumento è comune anche ad altri Paesi mediterranei, come l’Albania e il Montenegro, dove non c’erano segnalazioni da decenni, ma anche Siria, Libano e Israele, in cui le foche mancavano dal 1920. Non sappiamo però quali siano i numeri, anche perché c’è molta disomogeneità nei metodi utilizzati dai diversi Paesi per contarle» spiega Giulia Mo, ricercatrice presso l’area tutela della biodiversità marina e aree marine protette di ISPRA. I nuclei più consistenti (ovvero le colonie riproduttive) di foca monaca nel Mediterraneo sono oggi presenti solo in Grecia e Turchia, oltre alle coste della Mauritania e nell’ex Sahara spagnolo nell’Atlantico.

«La causa principale del tracollo per la foca monaca è stata la persecuzione diretta. In passato veniva uccisa perché ne veniva ricavato l’olio per le lampade dal grasso, e il cuoio dalla pelle. Più di recente, è stata considerata competitrice della pesca, quindi con la crescita dell’attività di pesca è aumentata la persecuzione. A questo si è sommata la cattura accidentale e infine è arrivato anche il disturbo dei siti di riposo e riproduzione, con l’aumento costante del turismo balneare. Nel 1982 c’è stato l’ultimo avvistamento di un cucciolo a Bosa, in Sardegna. Non possiamo comunque escludere che individui isolati abbiano continuato a frequentare le grotte più inaccessibili, anche se non abbiamo prove di attività riproduttiva in Italia», continua Mo. «Se ci sono le persone, le foche tenderanno a non andare sulle coste e nelle grotte, o a frequentarle solo quando sono vuote. Per esempio, nelle isole Egadi abbiamo osservato la frequentazione di alcune grotte che monitoriamo regolarmente, confermando la presenza costante e ripetuta nell’anno ma solo nei periodi in cui non c’è turismo. Un’azione di tutela importante, quindi, è identificare tutti i siti di riposo e ridurre la frequentazione da parte degli umani, per garantire luoghi sicuri e non disturbati alle foche». Sulla pagina Facebook dedicata alla foca monaca si può trovare un prontuario di norme da seguire per osservare senza danneggiare questi rari mammiferi. Norme che è bene osservare un po’ con tutti gli animali, marini e non, anche se resta ancora molto lavoro da fare per promuovere la consapevolezza. Massimiliano Rosso racconta di un sondaggio fatto nel Santuario Pelagos7 che negli ultimi 15 anni ha visto un numero sempre crescente di attività di whale watching.«Di tutti gli utenti di whale watching, meno della metà sapeva della presenza del Santuario Pelagos, a vent’anni dalla sua istituzione, e meno del 10% sapeva che esisteva un marchio di qualità emesso da Acccobams, (High Quality Whale Watching ), un codice di condotta per avvicinamenti sicuri agli animali. Allo stesso tempo, la maggior parte delle persone intervistate afferma che preferirebbe scegliere operatori con questo label: quindi sarà importante sensibilizzare gli utenti sulla sua importanza per spingere gli operatori a prendere il certificato».

Insomma tanti fronti in cui impegnarsi per arrivare a una gestione sostenibile delle risorse marine e alla tutela di questo delicato ecosistema. La scadenza della nuova strategia marina europea è il 2030 e richiederà un impegno diffuso e cooperativo, perché dieci anni possono essere veloci e non possiamo mancare l’obiettivo.

 

Note
1 Strategia per l’ambiente marino
2 Lauriano, Giancarlo, et al. "Aerial survey abundance estimates of the loggerhead sea turtle Caretta caretta in the Pelagos Sanctuary, northwestern Mediterranean Sea." Marine Ecology Progress Series 437 (2011): 291-302.
3 Paleczny M et al. (2015) Population Trend of the World’s Monitored Seabirds, 1950-2010. PLoS ONE 10(6): e0129342. doi:10.1371/journal.pone.0129342
4 Grémillet, David, et al. "Persisting worldwide seabird-fishery competition despite seabird community decline." Current Biology 28.24 (2018): 4009-4013.
5 Dalebout, M. L. et al. Worldwide structure of mtDNA diversity among Cuvier’s beaked whales (Ziphius cavirostris): implications for threatened populations. Mol. Ecol. 14, 3353–3371 (2005).
6 Baini, Matteo, et al. "First assessment of POPs and cytochrome P450 expression in Cuvier’s beaked whales (Ziphius cavirostris) skin biopsies from the Mediterranean Sea." Scientific reports 10.1 (2020): 1-13.
7 Tepsich, Paola, et al. "Whale Watching in the Pelagos Sanctuary: status and quality assessment." Frontiers in Marine Science 7 (2020): 1047.

 

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