fbpx La cometa di Encke e le sue novanta sorelle | Scienza in rete

La cometa di Encke e le sue novanta sorelle

Primary tabs

È stata pubblicata di recente su Planetary and Space Science l'indagine guidata da Ignacio Ferrin e Vincenzo Orofino che fornisce nuove prove a supporto dell’ipotesi che, tra i 20 e i 30 mila anni fa, una grande cometa andò in frantumi originando uno sciame di frammenti, il Taurid Complex. Questo potrebbe essere stato coinvolto in eventi collisionali con la Terra, un coinvolgimento che renderebbe il complesso tutt’ora un pericolo per il nostro pianeta.

In copertina: l’immagine, ripresa il 20 aprile 2020 dal telescopio spaziale Hubble, mostra la frammentazione della cometa C/2019 Y4 (ATLAS). A tutt’oggi si tratta del caso meglio studiato di frammentazione cometaria. A metà degli anni Ottanta gli astronomi Victor Clube e William Napier suggerirono che alle origini del Taurid Complex vi fosse un evento di questo tipo avvenuto tra i 20 e i 30 mila anni fa. Crediti: NASA, ESA, STScI, and D. Jewitt (UCLA)

Tempo di lettura: 7 mins

Un recentissimo studio fornisce nuove prove a supporto dell’ipotesi che, tra i 20 e i 30 mila anni fa, una grande cometa proveniente dalla Nube di Oort andò in frantumi originando uno sciame di frammenti. L’oggetto più famoso di questo gruppo – noto come Taurid Complex – è la cometa di Encke, responsabile di numerosi sciami meteorici. Al termine della loro analisi, gli astrofisici Ignacio Ferrin e Vincenzo Orofino giungono alla conclusione che i membri dell’attuale Taurid Complex sono ciò che rimane di una popolazione di oggetti molto varia e numerosa. L’aspetto che più preoccupa è che tale popolazione possa essere stata coinvolta in passato in eventi collisionali con la Terra, un coinvolgimento che la renderebbe tutt’ora un pericolo per il nostro pianeta.

Una cometa interessante

A differenza di quanto solitamente accade, la cometa di Encke – la cui designazione ufficiale è 2P/Encke – non prende il nome dal suo scopritore, una curiosa caratteristica che la accomuna alla cometa di Halley. Benché esistano numerose segnalazioni di comete del passato che potrebbero riferirsi alla cometa di Encke, la sua individuazione in tempi recenti avvenne il 17 gennaio 1789 per opera dell’astronomo francese Pierre Méchain. Nei suoi successivi ritorni venne “riscoperta” da altri astronomi finché, dopo la sua apparizione del 1818, il tedesco Johan Franz Encke ne calcolò l’orbita prevedendo il ritorno del 1822.

La cometa di Encke ha un periodo orbitale di 3,3 anni – il più breve tra le comete conosciute – e ogni 33 anni ha incontri ravvicinati con il nostro pianeta, transitando comunque a distanze superiori ai 26 milioni di chilometri. Lo studio delle variazioni del suo periodo orbitale ha indotto negli anni Cinquanta l’astronomo americano Fred Whipple a proporre il suo modello delle forze non gravitazionali che agiscono sui nuclei cometari. In tale modello la sublimazione dei ghiacci di un nucleo cometario, indotta dalla radiazione solare, sfocerebbe nella produzione di getti di gas in grado di influenzare il moto orbitale della cometa, anticipando o ritardando il suo successivo passaggio.

Da quasi settant’anni è accettata l’idea, proposta dallo stesso Whipple e da Salah El-Din Hamid, che la cometa di Encke sia responsabile dei due sciami meteorici denominati Tauridi Nord e Tauridi Sud, attivi dall’inizio di ottobre alla fine di novembre. Benché attualmente siano poco significativi, secondo alcuni studi sarebbero stati gli sciami meteorici più spettacolari dell’XI secolo; inoltre, ricerche basate su osservazioni europee e cinesi riportano che negli ultimi 2000 anni abbiano mostrato numerosi e significativi incrementi di attività. Recenti e dettagliate analisi dinamiche (per esempio quella di Dusan Tomko e Lubos Neslušan pubblicata nel 2019 su Astronomy and Astrophysics) suggeriscono come la cometa di Encke possa essere responsabile anche di altri sciami meteorici, un dato che implica una significativa attività.

La cometa gigante

Dalla metà degli anni Ottanta gli astronomi sono a conoscenza dell’esistenza di un gruppo di corpi celesti dinamicamente imparentati con la cometa di Encke. Un gruppo in cui figurano anche alcuni asteroidi e che viene collettivamente indicato con il nome di Taurid Complex. Questa parentela dinamica aveva portato nel 1984 gli astronomi Victor Clube e William Napier a sviluppare uno scenario che potesse spiegare gli episodi più recenti di bombardamento della Terra da parte di oggetti cosmici. I due astronomi puntavano il dito sul Taurid Complex suggerendo che alla sua origine vi fosse stata la frantumazione di una gigantesca cometa, del diametro di un centinaio di chilometri, avvenuta almeno 20 mila anni fa.

Sulla teoria non vi fu mai unanime consenso da parte degli astronomi, neppure quando David Asher, Victor Clube e Duncan Steel pubblicarono nel 1993 su MNRAS una sostanziale conferma di quelle analisi dinamiche. Come è stato messo in luce da alcune simulazioni dinamiche, la regione di cui si sta parlando è un crocevia piuttosto trafficato, destinazione privilegiata di alcuni meccanismi di risonanza gravitazionale. Per questo, in tale groviglio, risulta piuttosto complicato avere una risposta chiara in merito allo scenario della cometa gigante.

L’idea di significativi impatti cometari riconducibili alla cometa ipotizzata da Clube e Napier la ritroviamo anche in studi più recenti. Accoglie per esempio notevoli consensi – e inevitabili critiche – l’idea di uno stretto legame tra l’impatto di un possibile oggetto cometario e l’ultima glaciazione, collegamento già ipotizzato anche da Clube e Napier. A tal proposito si può segnalare lo studio pubblicato nell’ottobre 2007 sulle pagine di PNAS dal gruppo di ricercatori coordinati da Richard Firestone in cui il tracollo climatico stadiale del Dryas recente (Younger Dryas) viene imputato a un possibile impatto cosmico. La prova principe sarebbe il ritrovamento negli strati corrispondenti alla civiltà Clovis – improvvisamente e apparentemente senza motivo spazzata via 12900 anni fa – di numerosi tratti che solitamente caratterizzano i siti interessati da un impatto cosmico, quali granuli con iridio, microsferule magnetiche, carbone, fuliggine e depositi vetrosi. A suo tempo ne parlammo proprio sulle pagine di Scienza in rete.

Si può anche segnalare lo studio di Andrew Moore e collaboratori pubblicato nel marzo dello scorso anno su Scientific Reports relativo alle indagini effettuate sul sito archeologico di Abu Hureyra, in Siria. Anche in questo caso, secondo gli autori, i dati raccolti indicherebbero che l’insediamento venne distrutto da un impatto cosmico circa 12800 anni fa. Non dimentichiamo, infine, lo studio speculativo pubblicato nel 2017 relativo alla possibile interpretazione delle figure scolpite sui pilastri delle rovine megalitiche di Gobekli Tepe come testimonianza dei drammatici eventi di 13 mila anni fa.

Il nuovo studio

Una nuova approfondita indagine sul Taurid Complex e sull’attendibilità dello scenario della grande cometa è stata pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Planetary and Space Science da Ignacio Ferrin (Università di Medellin) e Vincenzo Orofino (Università del Salento) – qui è accessibile il preprint dello studio.

Il primo passo dell’analisi è stato quello di identificare in modo accurato, utilizzando criteri più restrittivi di quelli finora impiegati, l’effettiva popolazione di questo gruppo dinamico. Mentre in precedenza si ipotizzava una popolazione di oltre 140 oggetti, gli autori giungono a individuare 88 membri per i quali è altamente affidabile parlare di appartenenza al Taurid Complex. Il passo successivo è stato quello di indagare sull’eventuale attività cometaria manifestata da questi oggetti. Per fare questo si è utilizzato il metodo della curva di luce secolare: praticamente, si è valutata la variazione di luminosità su un lungo periodo di tempo, indice di possibile attività cometaria in concomitanza con il passaggio al perielio. Ferrin e Orofino hanno scoperto che i 2/3 degli oggetti di cui si possiede un opportuno set di dati fotometrici sono caratterizzati da attività cometaria. L’analisi dettagliata di due sottogruppi del Taurid Complex – quelli associati all’asteroide Hephaistos e alla cometa 169P/NEAT – ha permesso agli autori di sottolineare come alla disgregazione del corpo iniziale siano certamente seguiti altri eventi di frammentazione che hanno portato all’attuale popolazione che risulta molto differenziata.

I due autori non mancano di affrontare anche l’importante aspetto delle dimensioni dell’oggetto cometario originale. Utilizzando le stime delle attuali dimensioni dei componenti del Taurid Complex giungono alla conclusione che il diametro minimo del corpo originario doveva essere di almeno 25 chilometri. Per migliorare questa stima provano quindi a valutare l’entità del materiale perso dai frammenti della grande cometa nel corso del tempo a causa dei processi di sublimazione. Pur nella grande incertezza dovuta alla difficoltà di valutare la massa di polveri prodotta nelle varie frammentazioni, Ferrin e Orofino considerano sufficientemente attendibile ipotizzare un diametro di 120 chilometri – tutto sommato in linea con le valutazioni fatte a suo tempo da Clube e Napier.

Un gruppo eterogeneo

Un importante nodo da sciogliere è quello della grande varietà nella composizione dei membri del Taurid Complex testimoniata dalle tipologie spettrali che mostrano. Proprio esaminando gli spettri di sei membri del gruppo, Marcel Popescu e i suoi collaboratori, in uno studio apparso nel 2014 su Astronomy and Astrophysics, escludono una loro origine cometaria comune. Lascia comunque molto perplessi il fatto che, per cinque dei sei oggetti considerati da Popescu, nello studio di Ferrin e Orofino si indichi la presenza di attività cometaria.

Per giustificare la varietà di tipologie spettrali rilevate i due astronomi suggeriscono che possa dipendere dalla struttura del corpo originario, costituito da un agglomerato di detriti rocciosi tenuti assieme all’interno di una matrice di ghiacci. Con tale ipotesi si potrebbe spiegare come mai alcuni membri del Taurid Complex, come per esempio Oljato – un oggetto del diametro di circa 1,8 chilometri – siano caratterizzati da attività cometaria pur mostrando all’analisi spettrale una composizione superficiale principalmente rocciosa.

Secondo Ferrin e Orofino, le prove addotte nel corso della loro analisi mostrerebbero dunque quanto possa essere altamente attendibile l’ipotesi di un’origine cometaria comune per il Taurid Complex. Una conclusione chiaramente testimoniata dallo stesso titolo scelto per lo studio: Taurid Complex smoking gun: detection of cometary activity. Secondo i due autori, considerato che le orbite che caratterizzano questo gruppo dinamico sono potenzialmente pericolose per la Terra e che oggetti del Taurid Complex potrebbero essere direttamente coinvolti in passati episodi di collisioni, è inevitabile concludere che siamo in presenza di una popolazione che potrebbe continuare a rappresentare un pericolo per il nostro pianeta.

In un’intervista rilasciata a Media INAF Vincenzo Orofino è molto chiaro: «È proprio questo rischio di collisioni con la Terra che rende assolutamente indispensabile studiare questi membri di grande taglia del Taurid Complex. Determinare innanzitutto il numero esatto di questi oggetti e poi comprendere anche la loro natura e le loro caratteristiche orbitali è fondamentale per poter valutare con sufficiente anticipo la probabilità di impatto e la regione della Terra eventualmente coinvolta, al fine di approntare le opportune strategie di difesa planetaria contro questi nostri pericolosi ed ancora misteriosi “vicini di casa”».

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Discovered a New Carbon-Carbon Chemical Bond

A group of researchers from Hokkaido University has provided the first experimental evidence of the existence of a new type of chemical bond: the single-electron covalent bond, theorized by Linus Pauling in 1931 but never verified until now. Using derivatives of hexaarylethane (HPE), the scientists were able to stabilize this unusual bond between two carbon atoms and study it with spectroscopic techniques and X-ray diffraction. This discovery opens new perspectives in understanding bond chemistry and could lead to the development of new materials with innovative applications.

In the cover image: study of the sigma bond with X-ray diffraction. Credits: Yusuke Ishigaki

After nearly a year of review, on September 25, a study was published in Nature that has sparked a lot of discussion, especially among chemists. A group of researchers from Hokkaido University synthesized a molecule that experimentally demonstrated the existence of a new type of chemical bond, something that does not happen very often.