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Covid-19 cambia la tendenza al consumo di fauna selvatica in Asia

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Un articolo recentemente pubblicato su Nature Ecology&Evolution ha iniziato a valutare e analizzare come la pandemia, nelle sue fasi iniziali, abbia influenzato la propensione delle persone a consumare animali selvatici. Lo studio evidenzia e ricorda anche alcuni elementi da tenere in considerazione per le strategie mirate a ridurre tale consumo e basate su una diminuzione della domanda, più che sul divieto di commercio.

Crediti immagine: Adli Wahid/Unsplash

La pandemia di Covid-19 ha focalizzato l’attenzione sugli animali, selvatici e domestici, sotto molti aspetti: dal comportamento delle specie durante l’antropausa (il periodo di lockdown durante il quale sono state fortemente limitate le attività umane) all’allevamento, come avvenuto quando in alcuni allevamenti di visoni, in particolare in Danimarca, sono stati riscontrati casi d’infezione poi trasmesse agli umani. Il nostro rapporto con l’ambiente naturale e gli animali è il punto focale dell’emergere di nuove malattie, come abbiamo già ricordato su Scienza in rete: deforestazione, frammentazione degli habitat e commercio di specie hanno infatti un ruolo importante nell’avvicinare la nostra ad altre specie – e ai loro patogeni.

In questo senso, anche il consumo di specie selvatiche a scopo alimentare ha attirato particolare attenzione. Da più parti è tornata la richiesta di chiudere i mercati in cui gli animali vengono, e in Cina è stata introdotta una serie di divieti al consumo e all’allevamento di specie selvatiche. Tuttavia, come molti esperti fanno da tempo notare, i divieti potrebbero non essere la soluzione ideale anche perché rischiano di spostare il problema verso il mercato illegale, peraltro già fiorente in diverse aree del mondo. Per ridurre il consumo di specie selvatiche, dunque, una soluzione più efficace potrebbe essere quella di tentare di ridurre la domanda, invece che l’offerta: in altre parole, di agire direttamente sul consumatore.

Questo tipo di approccio, comunque, è complesso e richiede una solida attività di ricerca per capire come indirizzarlo al meglio in una determinata popolazione. È quanto ha iniziato a fare un lavoro recentemente pubblicato su Nature Ecology&Evolution: nelle prime fasi della pandemia, gli autori hanno sottoposto dei questionari a 5 000 persone di diversi Paesi asiatici, raccogliendo una serie di informazioni socio-demografiche e, soprattutto, i loro modelli di consumo e il rapporto con la consapevolezza su Covid-19.

La ricerca si è focalizzata sulla regione di Hong Kong, su Giappone, Myanmar, Vietnam e Tailandia. Tre erano i temi al centro del questionario, cui sono poi state associate le variabili socio-demografiche, e riguardavano il consumo di fauna selvatica (che, nella ricerca, era inteso nello specifico come l’acquisto di animali terrestri o parti di essi) dei partecipanti o di qualcuno che conoscevano nel corso dell’anno precedente; un’eventuale modifica nel modello di acquisto dovuta alla pandemia di Covid-19 e, infine, una previsione sul proprio consumo in futuro.

Mettendo le risposte date ai questionari in relazione alla consapevolezza auto-riportata su Covid-19, gli autori hanno evidenziato un forte rapporto tra la pandemia e il modello di consumo di fauna selvatica. In particolare, si osserva una relazione negativa tra la consapevolezza sulla pandemia e la probabilità riportata di consumare in futuro fauna selvatica: i partecipanti che riportavano maggior consapevolezza avevano una probabilità di acquistare animali selvatici tra l’11% e il 24%, a seconda del Paese considerato, inferiore rispetto a chi riportava una minor consapevolezza. Vi erano però delle eccezioni significative, nello specifico per il Vietnam (per quanto riguardava i consumi attuali, quindi durante le prime fasi di pandemia) e il Myanmar (per quanto riguardava i consumi futuri). I ricercatori non hanno ipotizzato una spiegazione per questo fenomeno, che però intanto sottolinea uno dei principali elementi portati in evidenza dallo studio, ossia la necessità di identificare con chiarezza gruppi e messaggi target cui rivolgere eventuali campagne di sensibilizzazione e informazione.

Parte del questionario era inoltre rivolta a un’ipotetica chiusura dei mercati di animali selvatici. Qui, i risultati sono variabili: per esempio, in tutte le regioni analizzate a eccezione del Myanmar, i partecipanti al questionario che maggiormente ritengono efficace la chiusura per evitare future pandemie sono anche coloro che riportano un maggior consumo, personale o tra conoscenti, di fauna selvatica. Questo può sembrare contro intuitivo ma, come suggeriscono gli autori, è anche possibile che proprio coloro che hanno una maggior consapevolezza sulla realtà dei mercati (per esempio su come sono tenuti gli animali) possano essere nella posizione migliore per comprendere come rappresentino un luogo di profonda influenza per la sanità pubblica.

Inoltre, scrivono i ricercatori, diverse sono le variabili socio-demografiche che possono essere in relazione al consumo di fauna selvatica e dunque da tenere in considerazione, sempre in relazione alla regione considerata. Per esempio, un reddito più alto, così una maggior propensione a viaggiare, è correlato a un maggiore acquisto di fauna selvatica in alcuni Paesi analizzati.

In conclusione, come anticipato, i risultati dello studio evidenziano chiaramente come ogni intervento mirato a ridurre il consumo di fauna selvatica in Asia passando attraverso la consapevolezza dei consumatori e riducendo la domanda non può non tenere in attenta considerazione le caratteristiche dei gruppi demografici e geografici, identificando target ben specifici. Inoltre, appare chiaro come tali caratteristiche vadano approfondite con ulteriori ricerche, necessarie anche per capire i principali driver della domanda. Questi ulteriori sforzi di indagine sono però necessari per garantire interventi basati su approcci analitici e dati robusti, che possano essere realmente efficaci per le campagne volte a ridurre il consumo di animali selvatici.

 


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