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Futuro della ricerca italiana: una conversazione con Maria Cristina Messa

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Maria Cristina Messa, ministra dell'università e della ricerca, deve affrontare la riforma delle carriere dei ricercatori di università e enti pubblici di ricerca, con l'obiettivo di ridurre il precariato e facilitare la mobilità tra istituti e anche da e verso l'estero. Inoltre, il suo ministero dovrà gestire 15 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e il nuovo Fondo Italiano per la scienza, istituito con il decreto "Sostegni bis".

Nell'immagine Maria Cristina Messa. Credit: Università degli studi di Milano-Bicocca, elaborazione Scienza in rete.

Maria Cristina Messa, professoressa ordinaria di diagnostica per immagini all’Università di Milano Bicocca ed ex rettrice nella stessa università, è stata nominata ministra dell’Università e Ricerca del governo Draghi a febbraio 2021. È la prima donna a ricoprire questo ruolo, la sesta se si considera il periodo di accorpamento del ministero dell’università con quello dell'istruzione. Nei primi mesi di incarico, ha nominato un’altra donna (Maria Chiara Carrozza) a capo del CNR. Forse anche questa scelta fa parte della modernizzazione di cui ha parlato più volte la ministra. Intanto ha annunciato alcuni provvedimenti che si concretizzeranno presto: una accelerazione della carriera per i ricercatori, la parificazione dei percorsi in università ed enti di ricerca, l’accorpamento di esame di laurea e abilitazione per alcune professioni - oltre ai medici, veterinari, psicologi, farmacisti e odontoiatri, ma anche fisici, chimici, biologi. Ora, attraverso il suo ministero, passerà anche la gestione di una parte del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. E si dovranno affrontare problemi nuovi e antichi di questo settore.

Tra i problemi più urgenti sul tavolo della ministra c’è quello di aumentare la quota di giovani laureati nel nostro paese. In effetti, l’ultima indagine di Eurostat sull’istruzione universitaria ha rivelato che l’Italia è penultima tra i 27 paesi membri dell’Unione Europea per percentuale di cittadini tra 25 e 34 anni con un diploma di studio universitario: solo il 29%. Peggio di noi ha fatto solo la Romania, con il 27%, mentre Lussemburgo, Irlanda, Cipro, Lituania e Paesi Bassi hanno già superato l’obiettivo che l’Unione si è prefissata per il 2030, con più del 45% di laureati nella fascia di età 25-34 anni.

«Per aumentare il numero di laureati è necessario sia accompagnare più giovani a iscriversi all’università sia incidere sul tasso di abbandono», spiega Messa, «dobbiamo investire in borse di studio perché non ci siano più meritevoli senza mezzi che non possono essere sostenuti a causa della mancanza di risorse, sostenere la realizzazione e l’ammodernamento di campus e alloggi affinché l’università non sia solo lezioni in aula ma sempre di più esperienza di vita».

Anche in base ai dati sui ricercatori siamo nelle retrovie, se paragonati a paesi simili al nostro. Secondo i dati OCSE, in Italia ci sono 6 ricercatori ogni mille occupati. In Francia sono 10,9, in Germania 9,7, nel Regno Unito 9,4 e in Spagna 7,1. Inoltre, i nostri ricercatori sono più anziani rispetto a quelli degli altri Paesi. Secondo la ministra Messa su questo punto sarà cruciale il disegno di legge 2285, ora in discussione al Senato dopo essere stato approvato dalla Camera e su cui, proprio in questi giorni, si svolgono le audizioni informali dei sindacati.

Il disegno di legge 2285, di iniziativa parlamentare, intende dare maggiore peso al titolo di dottore di ricerca nel mondo del lavoro, ma soprattutto riformare i meccanismi di reclutamento dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca. Oltre a facilitare la mobilità di studenti, docenti, ricercatori tra atenei, tra università ed enti di ricerca, in Italia e all’estero. Si tratta del primo intervento su questi temi dopo la legge 30 dicembre 2010, n. 240, parte della riforma del sistema scolastico e universitario attuata dal quarto governo Berlusconi con la ministra Mariastella Gelmini.

Il disegno di legge si propone di disciplinare le borse post laurea, modificare alcuni aspetti della disciplina relativa agli assegni di ricerca, ma soprattutto quella relativa ai contratti per i ricercatori universitari a tempo determinato, riconducendo a unità le due tipologie di contratto attualmente previste (tipo A e tipo B) e introducendo anche nel sistema italiano il meccanismo del cosiddetto tenure track, un contratto a tempo determinato della durata di sette anni non rinnovabile. Prevede inoltre di introdurre un contratto simile per ricercatori e tecnologi a tempo determinato degli enti pubblici di ricerca, nonché un meccanismo di mobilità, riguardante ricercatori titolari di contratti a tempo determinato, fra università ed enti pubblici di ricerca. «Dare chiarezza nel percorso e reali possibilità ai giovani è l’aspetto più urgente su cui lavorare» spiega Messa.

La ministra sottolinea anche che, nel riorganizzare le carriere dei ricercatori è fondamentale dare maggiore rilievo al personale tecnico e amministrativo di atenei ed enti di ricerca «riconoscendone la professionalità e la competenza, anche e soprattutto sotto il profilo della retribuzione. L’aspetto manageriale per la gestione delle infrastrutture, per garantire il necessario e qualificato supporto ai ricercatori, non può continuare a essere considerato di secondo piano». La speranza è che questo incida sul carico di lavoro burocratico che grava sulle spalle di tutti gli universitari e i ricercatori, costretti a sottrarre buona parte del tempo che dovrebbe essere dedicato alla ricerca per compiti di tipo amministrativo.

Altro nodo cruciale è quello dei finanziamenti. Sempre secondo i dati dell’OCSE, mentre l’Italia spende in ricerca e sviluppo poco più dell’1,4% del suo PIL, in Francia questa percentuale è del 2,2%, in Germania del 3,1% e nel Regno Unito dell’1,7%. Siamo a livelli inferiori rispetto alla media UE, che si attesta intorno al 2,2%. Un discorso analogo vale anche per la sola componente di spesa pubblica. «Con il PNRR, con il Fondo italiano per la Scienza istituito per la prima volta con il decreto legge “Sostegni bis” e destinato alla ricerca fondamentale, con i fondi ordinari in ricerca si inizia a invertire la rotta sul fronte della continuità e certezza degli investimenti. Il nodo tuttavia non riguarda solo il “quanto”, ma anche e soprattutto gli strumenti che dovrebbero consentire un uso rapido, efficace, efficiente e ovviamente trasparente delle risorse». «Inoltre - aggiunge la ministra - si tratta anche di valutare la ricerca. Per questo, con il decreto legge “Semplificazioni” è stato istituito il nuovo Comitato Nazionale per la Valutazione della Ricerca che prende il posto dell’attuale Comitato nazionale dei garanti per la ricerca, con una composizione più ampia e un rafforzamento delle competenze».

Le risorse destinate a università e ricerca nel PNRR ammontano a circa 15 miliardi di euro. Gran parte di questi fondi saranno destinati «al rafforzamento della ricerca e alla diffusione di modelli innovativi per la ricerca di base e applicata condotta in sinergia tra università e imprese», spiega Messa. «All’interno di questa voce sono racchiusi investimenti per il Fondo per il Programma Nazionale Ricerca (PNR) e progetti di Ricerca di Significativo Interesse Nazionale, finanziamenti per progetti presentati da giovani ricercatori, per partenariati allargati estesi a Università, centri di ricerca, imprese, per il potenziamento di strutture di ricerca e creazione di “campioni nazionali” di ricerca e sviluppo su tecnologie abilitanti, oltre alla creazione e al rafforzamento di “ecosistemi dell'innovazione”, e di "leader territoriali di ricerca e sviluppo"». In particolare 1,61 miliardi saranno destinati al finanziamento di massimo di 15 programmi di ricerca e innovazione nel periodo 2021-2026, realizzati da partenariati di università, centri di ricerca e imprese in linea con gli obiettivi del nuovo programma quadro di ricerca europeo Horizon Europe.

La componente della CGIL che raggruppa i lavoratori dei settori della formazione, istruzione e ricerca ha osservato che il PNRR si concentra soprattutto sulla ricerca applicata e industriale, trascurando quella di base. Tuttavia Messa ricorda che i fondi del PNRR sono solo uno degli strumenti di finanziamento della ricerca universitaria e degli enti pubblici di ricerca: «Integrando i fondi nazionali con quelli del PNRR struttureremo i PRIN-Progetti di Rilevante Interesse Nazionale con una dotazione annuale di circa 500 milioni all’anno per bandi di ricerca, per giovani ricercatori aggiungiamo 600 milioni del Recovery ai 200 dei fondi strutturali, inoltre il nuovo Fondo italiano per la scienza è totalmente destinato alla ricerca fondamentale, con una dotazione di 50 milioni per il 2021 e 150 a partire dal prossimo anno».

Il PNRR prevede infine un investimento di 600 milioni di euro per progetti di giovani ricercatori sul modello dei bandi European Research Council, Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowships e Seal of Excellence. «L’obiettivo è consentire loro di maturare una prima esperienza di responsabilità di ricerca» e offrire un’alternativa al trasferimento all’estero, che sempre più spesso i nostri ricercatori vedono come unica possibilità per proseguire la loro carriera.

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