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Perché tutti vogliono tornare alla natura (ma non a piedi)?

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Gilberto Corbellini commenta la tendenza odierna del voler "tornare alla natura", anche in relazione alla recente approvazione del disegno di legge che equipara agricoltura biologica e biodinamica.

Immagine: Pixabay.

La discussione se l’agricoltura biodinamica sia o meno equiparabile a quella “biologica” è di lana caprina. Entrambe infatti si basano su credenze: se la biodinamica è mero esoterismo, la tesi secondo cui non usare antibiotici, antiparassitari o fertilizzanti chimici sia preferibile per la salute umana e l’ambiente è frutto di una posizione pregiudiziale. L’agricoltura cosiddetta biologica è una scelta culturale e conveniente grazie agli aiuti di stato, che si fonda su associazioni di idee piuttosto intuitive, non strettamente scientifiche, come evitare religiosamente l’uso di prodotti di sintesi, anche se senza i prodotti di sintesi non ci sarebbe stata la rivoluzione verde e Norman Borlaug non avrebbe avuto il Nobel per la pace. È un’agricoltura che funziona nei paesi ricchi, dove viene protetta politicamente, magari impedendo la coltivazione di OGM e al costo annuale di circa 8 miliardi di deficit in media nell’ultimo decennio per la bilancia commerciale del settore agricolo.

Sarebbe comunque tempo perso avviare una discussione sul termine “biologico” applicato a un tipo di agricoltura, come se le altre forme di agricoltura non fossero anche biologiche... In realtà “biologico” vuol dire “naturale” e stante che “agricoltura naturale” è una contraddizione in termini, perché l’agricoltura è un’invenzione umana, incuriosisce che nella difesa del “biologico” si attribuisca un valore normativo a un’idea del tutto ideologica di “natura”.

Il problema è più generale: l’agricoltura “biologica” è ritenuta più sostenibile e sicura rispetto a quella convenzionale, le medicine e le cure “naturali” sono giudicate più salutari di quelle scientifiche, ovvero testate per sicurezza ed efficacia, le pratiche riproduttive “naturali” (versus medicalmente assistite) o la morte “naturale” (versus eutanasia) sono difese eticamente dalle religioni, la biodiversità “selvatica” sarebbe più sana e, malgrado la comunità degli ecologi ne discuta da oltre dieci anni senza raggiungere il consenso, proteggerebbe contro i patogeni emergenti (OneHealth), ecc. Perché questo modo di pensare, che si cerca di ammantare di scientificità senza significativi risultati, è così diffuso? Dire che è una moda non spiega niente.

“Natura” è un concetto fallace

Nulla è più culturale dell’idea di “natura”. Nondimeno non c’è niente di più difficile da sradicare della credenza che esistano situazioni che sono, per definizione, naturali o più naturali di altre. Un’idea che non avrebbe nulla di problematico se, per motivi che dipendono dalla nostra naturale psicologia, non si sposasse con il pregiudizio per cui quello che è considerato “naturale” funziona come riferimento normativo, ovvero è giudicato anche più “buono” (in senso morale o organolettico), più “bello”, più “sicuro” e più “giusto”.

Se sia corretto, sul piano logico, fare appello alla natura come criterio normativo, è una questione risolta nel 1874 da John Stuart Mill nel suo Three Essays on Religion. Il termine “Natura”, scriveva Mill, viene usato con due significati principali: da un lato per denotare “l'intero sistema di cose esistenti, a cui si attaccano tutte le loro proprietà”, dall’altro “indica come le cose sarebbero senza l'intervento umano”. Il primo significato non ha senso, perché ognuno di noi non può fare altro che obbedire alle “leggi fisiche o mentali della natura”. Il secondo significato è “immorale”, perché la natura è piena di cose che accadono spontaneamente e che se fatte da un uomo sarebbero giudicate “irrazionali”, “orribili” e “malvagie”.

Oggi l’appello alla “natura” fa leva sulla credenza che esista un “ordine” naturale dato, intrinsecamente armonico e per questo da apprezzare o conservare intatto. Sviluppando la scienza e la tecnologia, la specie umane porterebbe disordine. Di fatto, la realtà è cambiamento continuo, in modi che sono indipendenti da ogni presunta volontà umana. Le aspirazioni che ci guidano come esemplari di una specie naturale sono riprodurci, autoingannarci per manipolare il prossimo (l’autoinganno è una componente essenziale della comunicazione a scopi riproduttivi e di sopravvivenza) e migliorare le condizioni di vita personali e di parenti/amici: sono motivazioni “naturali” da cui discende quasi tutto il resto. Gli occhiali o una protesi dell’anca sono di certo meno naturali di un OGM, ma i contenuti delle motivazioni di un agricoltore biologico, che usa i primi due ma chiede il bando per gli OGM, gli impediscono di capirlo.

Evoluzione dell’idea normativa di natura

Le religioni da sempre hanno sacralizzato la natura in quanto fonte principale delle minacce – attribuite a volontà soprannaturali – che servivano a mediatori e sacerdoti per spaventare e tenere insieme le comunità umane sulla base della paura. Il pensiero antico, laico e naturalistico, metteva da parte gli dei, ma identificava nella natura una fonte diretta di norme di comportamento o, come in Aristotele, l’insieme di cause finali e formali di cui è parte e può essere compresa la natura stessa dell’essere umano.

L’uso della natura come riferimento normativo riemergeva in due contesti di svolta del pensiero occidentale. La dottrina teologica cristiana, come altre religioni, identifica, ma in modo più qualificato, nell’ordine naturale l’espressione di un ordine sacro, il fondamento metafisico-morale della legge divina. La lex naturalis riguarda, in un’ottica fondata sulla creazione divina come descritta in Genesi, i giudizi normativi relativi a ogni aspetto del consorzio civile. Così si spiegano le posizioni della dottrina cattolica in merito ai temi etici di inizio vita e di fine vita, o l’apertura, benché più incerta dopo il Concilio Vaticano Secondo, alla manipolazione di animali e piante di interesse agricolo.

Lo sviluppo sociale ed economico porta l’essere umano sempre più lontano dal mondo “naturale” e quando, nel Cinquecento, l’occidente entrò in contatto con popolazioni preagricole, diversi filosofi si chiesero come fosse avvenuto il distacco dalla “natura” e che cosa si fosse perso o acquisito. Lo “stato di natura” diventa per Hobbes, Locke, Spinoza, Rousseau e altri un ideale di riferimento per descrivere le qualità sociali e politiche e i diritti “naturali”. La ricerca antropologica, biologica e psicologica ha smontato qualunque spiegazione essenzialista nell’osservazione di uomini e donne allo stato di natura. Tuttavia, abbiamo scoperto che la selezione naturale ha cablato il cervello umano per categorizzare l’ambiente proprio essenzialisticamente, con tutti i pregiudizi che ne derivano su donne, neri, omosessuali, meridionali, darwinismo, ecc.

Perché rimpiangere il passato?

Da decenni l’occidente è percorso dal pessimismo nostalgico, che immagina il presente e il futuro peggiori del passato. Nulla di nuovo, in realtà. Si tratta di un errore di giudizio ben descritto dagli psicologi cognitivi, chiamato “retrospettiva rosea”. Errore già noto agli antichi, i quali sapevano che memoria praeteritorum bonorum (il passato viene sempre ricordato migliore). Come quando diciamo ai figli/giovani: “ai miei tempi…”, “quando avevo la vostra età…, “i giovani d’oggi…”, ecc. Il pessimismo nostalgico è la conseguenza di un modo di ragionare utile ai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, che traevano vantaggio in quel contesto dall’essere conservatori e avversi al rischio.

La credenza che il passato sia migliore del presente sarebbe facilmente confutabile. Nel corso delle ultime 15-20 generazioni, cioè negli ultimi trecento anni, e in modo particolarmente accentuato nel corso delle ultime 3-4 generazioni, cioè negli ultimi sessant’anni, nel mondo sono accadute novità su cui raramente ci si sofferma a riflettere. Non solo il progresso tecnologico, ma anche economico, con l’aumento del reddito medio pro capite, più libertà e salute, meno analfabetismo e violenza, ecc. Come diceva Barack Obama in un’intervista rilasciata a Wired nel 2017, «il mondo non è mai stato un posto migliore di adesso». Ma è inutile dirlo, ci sarà sempre qualche relativista che difende la dignità o l’equivalenza del peggio.

Che cosa ha consentito la creazione e diffusione del benessere economico, sociale e sanitario? Le pressioni selettive e i vantaggi riproduttivi nei contesti ambientali dell’adattamento evolutivo (la natura che ha contato davvero, esercitando le pressioni selettivi da cui siamo evoluti, cioè quella preagricola) hanno plasmato la nostra biologia, incluso il comportamento, che è rimasta sostanzialmente identica a quella dei nostri antenati vissuti per centinaia di migliaia di anni allo stato di cacciatori-raccoglitori. La transizione all’agricoltura non comportò, se non sotto il punto di vista della natalità e tranne in particolari situazioni, un miglioramento delle condizioni di vita. I cambiamenti hanno causato dissonanze tra le predisposizioni evolutive e le nuove condizioni di vita nell’ambiente fisico e sociale creato dall’attività agricola. Ma con la modernità hanno anche consentito di contrastare gli effetti di queste “sfasature” sviluppando una serie di tecniche (produttive, di cura e prevenzione, istituzionali, etc.) che hanno in parte risolto i problemi creati dall’allontanamento dallo “stato di natura”, nonché potenziato predisposizioni umane prosociali, già presenti nei nostri antenati. In questo modo si è arrivati ad avere il meglio, sia rispetto alla vita paleolitica sia rispetto al mondo premoderno. Non il meglio in assoluto o possibile. Il mismatch continua a causare problemi sanitari, sociali, economici perché persistono dissonanze fisiologiche e cognitive con gli stili di vita moderni, dovute a predisposizioni imposte dalla nostra genetica pleistocenica. Tra queste l’inclinazione ad assegnare valore normativo a cose che autoingannandoci riteniamo “naturali”.

La politica e la natura umana

Le neuroscienze e la psicologia sperimentale hanno modificato le idee tradizionali sulla natura umana e le predisposizioni che modulano, a diversi livelli, la nostra prosocialità. Si è scoperto che non siamo del tutto buoni, né così intelligenti come farebbero ritenere i risultati raggiunti, e tanto meno razionali. La cooperazione e la competizione ci aiutano a evolvere socialmente. Si è visto che le emozioni e l’autoinganno giocano un ruolo importante nei giudizi e che l’educazione è essenziale, anche se non sufficiente, per tenere a bada impulsi egoistici o antisociali. “I migliori angeli della nostra natura”, di cui parlava Abraham Lincoln, devono sempre imparare a suonare le “corde mistiche della memoria”.

Se esistono le democrazie liberali è perché si è visto che si sta individualmente meglio, le società funzionano meglio se non si fanno indottrinare i figli da qualche religione, se le donne non sono sottomesse, se si ha chiaro che la maggioranza o il sentire popolare non hanno ragione per definizione, se si capisce che il mercato migliora l’efficienza dell’economia. A rifletterci si tratta di pratiche non “naturali”. La democrazia liberale è scaturita da un processo che ha visto affermarsi la scienza sperimentale e la razionalità scientifica come modelli per conoscere e decidere, e quindi la capacità di tenere sotto controllo la nostra natura, o far prevalere quei tratti naturali altruistici anche in situazioni dove non ci verrebbero spontanei. Una visione politica o culturale che predicasse una superiorità morale della natura in opposizione a un suo prodotto, cioè noi come specie, magari sulla base dell’idea che scienza e tecnologia rappresentino una minaccia per il benessere umano e l’ambiente, farebbe ancora prevalere i nostri angeli? O darebbe di nuovo più spazio ai demoni?


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