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I polmoni dopo l’uragano Covid

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Tutti i mezzi di comunicazione hanno dato grande rilievo all’intervento di sostituzione polmonare magistralmente e pionieristicamente effettuato su un ragazzo diciottenne (quindi, fortunatamente, su un organismo in partenza sano) dall’equipe di Chirurgia toracica e Trapianti di polmone del Policlinico di Milano, diretta da Mario Nosotti; un intervento del genere è stato tentato solo in pochi altri casi in Cina e in un singolo caso a Vienna, la scorsa settimana.

Per descrivere lo stato di compromissione terminale dell’apparato respiratorio del giovane, riecheggiavano le parole “polmoni bruciati”; per capire quale sia il loro equivalente anatomopatologico, in realtà non meno raccapricciante della sintesi mediatica, si deve partire dal primum movens, la polmonite interstiziale acuta causata dal coronavirus. Essa è caratterizzata da un danno alveolare diffuso e dall’infiltrazione di cellule infiammatorie (macrofagi, linfociti e granulociti neutrofili) nell’interstizio polmonare, che è lo spazio anatomico tra gli alveoli e funge da “impalcatura” delle vie aeree e dei vasi polmonari, dall’ilo alla pleura viscerale.

Nei casi che si aggravano, queste cellule liberano in gran quantità fattori di crescita dei fibroblasti (che depositano collagene, dando fibrosi) e radicali liberi dell’ossigeno, che distruggono gli pneumociti di tipo I, sostituiti dagli pneumociti atipici e iperplastici, di tipo II: le pareti alveolari si ispessiscono, gli spazi aerei collassano, i capillari si restringono e nelle piccole arterie si sviluppano trombi. Sul versante clinico, intanto, i sintomi (febbre, tosse e dispnea) peggiorano in 7-14 giorni e si arriva all’insufficienza respiratoria.

I test diagnostici più specifici per un paziente allettato sono: 

  • TC del torace, che mostra la struttura più fine dell’interstizio del polmone: la TC HR (ad alta risoluzione) ottiene un dettaglio del parenchima polmonare paragonabile all’osservazione microscopica a basso ingrandimento di preparati anatomici
  • biopsia polmonare e BAL (bronco lavaggio alveolare), per i casi dubbi o per caratterizzare il tipo di fibrosi
  • ossimetria ed emogasanalisi, che misurano la concentrazione di ossigeno e anche (la seconda) di anidride carbonica nel sangue arterioso

L’esito acuto ed estremo della polmonite del giovane appena salvato dal trapianto cattura l’attenzione; tuttavia, in termini di danno alla popolazione, non è meno grave il possibile esito in fibrosi polmonare cronica dei pazienti guariti dalla polmonite da coronavirus. Il tessuto fibrotico neoformato, infatti, fa perdere elasticità ai polmoni, diminuendo l'efficienza nello scambio dei gas (da qui la dispnea dopo sforzi anche piccoli) e aumentando le resistenze alla circolazione del sangue, con conseguente sforzo della pompa cardiaca (cuore polmonare cronico).

Il convegno della Società Italiana di Pneumologia, tenutosi in via obbligatamente digitale il 26 maggio, ha studiato gli esiti di pazienti colpiti da SARS nel 2003: il 30% dei pazienti sopravvissuti, a sei mesi dalla guarigione, avevano ancora anomalie polmonari radiologicamente visibili e segni diffusi di fibrosi polmonare irreversibile ed erano coinvolti anche pazienti giovani (dal 30 al 75% dei casi valutati). Confrontando quei dati con i primi derivati dal follow-up di pazienti con polmonite da SARS-CoV-2, gli pneumologi hanno rilevato una somiglianza tra i due virus nel danneggiare cronicamente i polmoni: agli adulti possono servire in media da 6 a 12 mesi per il recupero della funzione respiratoria che, per alcuni, potrebbe non essere mai completo, con alte percentuali di fibrosi polmonare e di necessità di ossigenoterapia domiciliare.

Nel paziente guarito da Covid-19, si devono monitorare spirometria e DLCO (capacità di diffusione del monossido di carbonio), che valutano la funzionalità polmonare e il test del cammino di 6 minuti (6MWT), che valuta il grado di tolleranza all’esercizio fisico. Non esiste una cura che porti a guarigione completa, al di fuori del trapianto polmonare, ma vengono provati trattamenti di diverso genere sia in fase acuta per salvare la vita, sia in fase cronicizzata per migliorarne la qualità e rallentare la progressione della malattia: 

  • cortisonici e immunosoppressori (azatioprina, ciclofosfamide o methotrexate), per mitigare la risposta infiammatoria
  • riabilitazione respiratoria con esercizi specifici
  • ossigenoterapia, nella durata stabilita in base ai valori di emogasanalisi e saturimetria

Per la possibile attinenza con gli esiti polmonari di Covid-19, si segnala che la FDA ha recentemente riconosciuto lo status di breakthrough therapy (che accelera il processo di approvazione del farmaco) per la malattia polmonare interstiziale fibrosante non classificabile, a due farmaci usati nel trattamento della fibrosi polmonare idiopatica: pirfenidone e a nintedanib. Il pirfenidone blocca la proliferazione dei fibroblasti e riduce la produzione di citochine associate all’accumulo di matrice extracellulare; il nintedanib è un inibitore delle tirosinchinasi che blocca i recettori dei fattori di crescita rilasciati dalle piastrine che richiamano macrofagi e i recettori dei fattori di crescita dei fibroblasti e dell’endotelio vascolare; la sua attività sarebbe quindi anti-fibrotica e antinfiammatoria.

Per tenere aperte tutte le vie di sperimentazione evidence based e, contemporaneamente, di terapia emergenziale, anche l'Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha attivato, in collaborazione con l'ente regolatorio europeo (EMA) una procedura fast track che consente, nel caso vengano alla luce nuovi farmaci efficaci per combattere Covid-19, di approvarne l'uso ospedaliero in poche ore, purché siano disponibili dati sulla loro sicurezza d’impiego nell’uomo.

 


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