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I gelidi giorni dei mammut

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Ufficialmente è noto come stadiale del Dryas recente (Younger Dryas). In pratica si tratta di un periodo di tempo caratterizzato da un abbassamento globale della temperatura la cui breve durata (approssimativamente 1300 anni) non permette di considerarlo come una vera e propria era glaciale. Il nome gli viene da un grazioso fiore bianco della famiglia delle Rosaceae caratteristico della tundra che possiamo incontrare anche sulle nostre montagne, il camedrio alpino (nome scientifico Dryas octopetala). E' stato lo studio della diffusione dei suoi pollini a indicare che circa 13 mila anni fa si registrò un importante e repentino calo della temperatura nell'emisfero settentrionale.
Il riaffacciarsi improvviso di un nuovo periodo glaciale quando ormai la Terra stava uscendo dall'ultima glaciazione ebbe conseguenze ben più disastrose della necessità del camedrio di svernare in cerca di un clima più mite. In quel periodo, nel continente Nordamericano era diffusa la civiltà di Clovis (così chiamata dai ritrovamenti nell'omonima città nel Nuovo Messico), una civiltà fiorente le cui tracce emergono da numerosi siti archeologici. Quelle stesse tracce, però, indicano che 12900 anni fa, improvvisamente e apparentemente senza motivo, quella civiltà ebbe un drammatico tracollo. Gli strati geologici testimoniano un analogo destino anche per la megafauna: i mammut e gli altri grossi quadrupedi che popolavano quelle regioni, bersaglio privilegiato delle battute di caccia dei Clovis, improvvisamente spariscono.
Individuare con certezza il colpevole di questa drammatica ecatombe è terribilmente complicato. Vi sono alcuni indiziati e le prove a carico non mancano, ma la sentenza definitiva è ancora molto lontana. Nel 1990 Wolfgang Berger (University of California) suggeriva tre possibili direttrici: una risposta anomala del sistema climatico alle variazioni di alcune grandezze che lo governano (albedo, CO2, circolazione oceanica), un disturbo dovuto a un evento interno al sistema (per esempio il collasso della piattaforma glaciale), oppure una forzatura esterna (esplosione di supernova, variazione dell'emissione solare). Con il passare degli anni, l'idea che andava raccogliendo sempre più consensi era che lo Younger Dryas fosse stato innescato da una anomala circolazione oceanica alla cui origine vi era l'immissione di masse d'acqua con temperatura più bassa e minore salinità provenienti dallo scioglimento dei depositi ghiacciati ammassatisi nel corso della glaciazione appena conclusa. Si veda, per esempio, lo studio pubblicato nel 2007 da Katrin Meissner (University of Victoria) su Geophysical Research Letters.
Sempre nel 2007, però, si affaccia un'altra spiegazione, fino a quel momento mai presa in considerazione da nessun ricercatore. Poiché in molti siti lo strato di terreno corrispondente all'epoca di Clovis è segnato dalla presenza di un nero e sottile deposito ricco di fuliggine, Rex Dalton, corrispondente di Nature, suggerì sulle pagine della rivista che quel tracollo lo si potesse imputare a un possibile impatto cosmico. A dare forma concreta a questa sconvolgente ipotesi ci pensa uno studio pubblicato qualche mese più tardi sulle pagine di PNAS da un nutrito team di ricercatori coordinati da Richard Firestone (Lawrence Berkeley National Laboratory). Nello studio si mette in evidenza come negli strati corrispondenti alla civiltà Clovis appaiono numerosi tratti che solitamente caratterizzano i siti interessati da un impatto cosmico: granuli magnetici con iridio, microsferule magnetiche, carbone, fuliggine, sferule carboniose, depositi vetrosi con nanodiamanti e fullereni. L'idea portante è che un proiettile cosmico - probabilmente una cometa - si sia schiantato sul Canada e le conseguenze dell'impatto si siano manifestate non solo sul Nordamerica, ma sull'intero pianeta.
La pubblicazione ha un effetto dirompente. La comunità degli addetti ai lavori si spacca in due fazioni e comincia un agguerrito ping-pong tra chi sostiene l'idea dell'impatto cosmico e chi cerca di dimostrarne l'infondatezza. Una partita che riserva numerosi colpi di scena, ognuno dei quali sembra destinato a mettere la parola fine all'intera vicenda. L'ultimo in ordine di tempo è opera di David Meltzer, archeologo della Southern Methodist University di Dallas, e del suo team. Lo studio è stato pubblicato a inizio maggio su PNAS e, a detta di alcuni ricercatori, costituisce l'attacco più duro all'ipotesi dell'impatto. A differenza di precedenti studi che contestavano alcuni aspetti della teoria dell'impatto (per esempio si sosteneva che le tracce indicate da Firestone potessero avere un'origine differente), Meltzer è andato dritto al cuore del problema.
I ricercatori del suo team hanno infatti preso in considerazione i 29 siti per i quali erano più conclusive le prove del possibile impatto e hanno analizzato con la massima attenzione l'accuratezza della loro datazione. Da questa analisi è emerso che solamente tre di essi cadevano esattamente nella finestra temporale che segna l'inizio dello Younger Dryas. Per gli altri sono emersi errori di datazione o procedure non corrette di raccolta dei campioni che finivano col comprometterne l'attendibilità. L'inevitabile conclusione del team di Meltzer è stata che, considerate tutte assieme, le datazioni non riescono a dimostrare che 12800 anni fa si verificò un evento che lasciò una traccia simultanea in tutte le 29 località. Non vi è insomma nessuna evidenza che ci imponga di accettare l'ipotesi di un impatto extraterrestre.
Se il serrato botta e risposta registrato su questo tema negli anni passati fa testo, non credo si dovrà attendere molto tempo prima che i sostenitori dell'impatto facciano sentire la loro voce. E' bene ricordare, però, che in gioco non c'è solamente il puntiglio di vedere chi ha ragione e chi torto. Se, per esempio, si dimostrasse corretta la teoria di un impatto cosmico, ci troveremmo a dover meditare che, in fondo, 13 mila anni non sono poi un lasso di tempo così lungo e quell'evento così sconvolgente non appartiene dunque a un remoto passato...

Per approfondire:
The Younger Dryas Impact Hypothesis


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