fbpx Covid-19 e fabbisogno di ossigeno | Scienza in rete

L'ossigeno e le altre cure

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Continuano a circolare nei media voci secondo cui i sanitari sarebbero riluttanti a mettere in ventilazione meccanica i pazienti anziani, perché scelgono di salvare al loro posto i giovani. Che ciò non risponda al vero dovrebbe essere creduto confidando nel rigore etico della classe medica; tuttavia è più facile comprenderlo se si approfondiscono alcune nozioni. 

Una galassia di sintomi

L’OMS, l'ECDC (European Center for Disease Control and Prevention) e l'ISS hanno riconosciuto SARS-CoV-2 come un patogeno capace di infettare tramite il contatto e le droplet, ma anche per via aerea e, probabilmente, con ciclo oro-fecale. L’infezione può, quindi, presentarsi con quadri clinici molto diversi tra loro, perché, pur manifestando la sua letalità soprattutto nell’insufficienza respiratoria, il virus può attaccare altri organi. 

Al momento, si ritiene che una percentuale più alta del 70% dei casi di Covid-19 si sia presentata con sintomi assenti o lievi: febbre o febbricola, male alla testa o a tutti i muscoli, raffreddore, tosse sporadica, feci sfatte, modificazioni del gusto e dell’olfatto. Questo stadio non richiede il ricovero in ospedale, a meno che vi siano segnali o condizioni che predicano un deterioramento rapido oppure vi sia impossibilità di raggiungere un ospedale in caso di peggioramento.

Anche i pazienti molto anziani e quelli con patologie cardiovascolari, oncologiche o diabete mellito possono esordire con una sintomatologia lieve, ma hanno un rischio più alto di peggiorare improvvisamente: la seconda “ondata”, causata da un’eccessiva risposta infiammatoria, con immissione in circolo delle temute citochine e dei fattori pro-trombotici, porta alla disfunzione del polmone, sia sul versante alveolare sia sul versante della sua vascolarizzazione. 

Come si respira?

Come si sa, la normale diffusione di ossigeno e anidride carbonica tra gli alveoli e i capillari alveolari dipende da più di un fattore: la perfusione sanguigna dei polmoni (a sua volta funzione della frequenza cardiaca e del volume sistolico dell’atrio destro), l’integrità anatomica degli alveoli e dell’interstizio polmonare e, non ultimo, il buon funzionamento delle strutture toraciche che sostengono il lavoro respiratorio. L’aria, da sola, non espande i polmoni: nell’inspirazione, infatti, la richiama nell'albero bronchiale e negli alveoli la dilatazione della gabbia toracica, dovuta principalmente all’abbassamento del diaframma, quando si respira normalmente. E’ possibile espandere i polmoni facendo lavorare altri muscoli, come gli intercostali esterni che allargano la gabbia toracica e alcuni muscoli toracici che la alzano. 

Nell’espirazione, all’inverso, il deflusso dell’aria dai polmoni avviene per la riduzione del volume della gabbia toracica, determinata in parte passivamente dall’elasticità delle strutture toraciche e polmonari e in parte dalla contrazione dei muscoli addominali che fanno salire il diaframma e dei muscoli intercostali interni che avvicinano le coste.

Saturimetro: istruzioni per l'uso

Una delle decisioni critiche nel trattamento di un paziente Covid-19 nella fase intermedia, quando la frequenza del respiro supera i 20 atti respiratori al minuto e la saturazione periferica si ossigeno (SpO2) scende sotto il 96%, riguarda proprio il ripristino del fabbisogno di ossigeno dell’organismo. 

Al domicilio del paziente, la misurazione della saturazione periferica di ossigeno (SpO2) si esegue con il saturimetro, un apparecchietto in cui inserire il dito; la misurazione è accurata anche in caso di anemia, ma non è attendibile se vi è vasocostrizione (mani molto fredde) o smalto sulle unghie (che dà interferenze luminose) o se la mano viene mossa.

L’aria ambiente ha una concentrazione di ossigeno del 21%, che può essere insufficiente per i pazienti con l’infezione polmonare virale: l’ossigenoterapia standard, che si può attuare anche al domicilio del paziente, in pazienti con vie aeree superiori intatte e che abbiano modalità e frequenza di respirazione stabili, ha l’obiettivo di incrementare la pressione parziale dell’ossigeno inspirato, così da aumentare la pressione parziale di O2 a livello alveolare e arterioso. Ogni litro di O2 erogato a basso flusso da una bombola e miscelato con l’aria ambiente, aggiunge il 3-4% di concentrazione frazionale all’ossigeno inspirato. Il paziente inspira l’ossigeno tramite una maschera o le cannule nasali, di solito più tollerate. 

Quando serve l'ossigeno: ventilazione non invasiva e respirazione meccanica

Alcuni pazienti ipossiemici acuti possono continuare ad avere difficoltà a respirare nonostante flussi di ossigeno > 10‐15 L/min, in maschera con reservoir: significa che la malattia è arrivata alla fase critica. Queste persone devono essere ricoverate in ospedale, dove si può ricorrere all’High‐flow nasal oxygen (HFNO) oppure alla ventilazione meccanica. 

Il ventilatore meccanico è uno strumento che sostituisce o supporta la funzione dei muscoli respiratori, imprimendo energia sufficiente ad assicurare adeguati flusso, pressione e volume di gas negli alveoli durante l’inspirazione. La ventilazione meccanica può essere non invasiva o invasiva. 

I due tipi di ventilazione non invasiva sono la Continuous Positive-Airway Pressure (C-PAP) che richiede un paziente cosciente e collaborante, e la Non Invasive Pressure Support Ventilation (NIPSV), costituita da un ventilatore programmabile e da interfacce che possono essere una maschera (di prima scelta, anche se può dare irritazione cutanea) o un casco (meglio tollerato, ma meno efficiente). 

La ventilazione meccanica non invasiva può correggere l’ipossiemia, aiutando a ritardare o evitare l’intubazione endotracheale.  I pareri su quanto debba durare il tentativo di tenere in NIV (ventilazione non invasiva) un paziente che non riesce a respirare autonomamente, prima di passarlo a IOT (ossigenoterapia invasiva) sono discordi. In pratica, l’ossigenoterapia non invasiva andrebbe fatta solo in reparti ad alta intensità di cure e con pronta possibilità di passare a IOT.

Le linee guida della Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI), raccomandano di non prolungare il tentativo di ventilazione non invasiva oltre il periodo di un’ora, se, durante questo tempo, non si sono osservati sostanziali miglioramenti. 

Se già alla prima valutazione il paziente presenta fattori prognostici d’imminente peggioramento, è preferibile intubare in elezione, piuttosto che in emergenza, per minimizzarne le complicanze e per ridurre i rischi di errore o di contaminazione del personale sanitario. 

I danni da respiratore

Alcuni medici con grande esperienza di terapia intensiva maturata sul campo anche in queste settimane, si appellano al principio cardine che i pazienti devono, innanzi tutto, essere lasciati tranquilli e che evitare di fare troppo è di maggior beneficio che fare qualcosa a tutti i costi. Fin quando non vi è pericolo di vita, aggiungere ossigeno, lasciando la respirazione spontanea, è meglio che ventilare meccanicamente: anche se i miglioramenti sono lenti, prendere tempo può risparmiare danni al paziente.

I pazienti molto anziani, in particolare, non sono i candidati ideali per la respirazione meccanica, perché il loro organismo più debole (o debilitato da precedenti patologie) potrebbe non tollerare di sommare al danno polmonare da infezione virale i possibili danni da sovra-infezione batterica e i danni da respiratore. L’alternanza ciclica di sovradistensione e di collasso alveolare sotto eccessiva pressione, infatti, mina l’elasticità polmonare; le lesioni meccaniche, poi, portano al rilascio di mediatori biologici che possono causare danni anche ad altri organi. 

Allo scopo di facilitare la ridistribuzione del flusso polmonare, i pazienti gravi vengono tenuti molte ore della giornata in posizione prona; girare periodicamente il paziente è una manovra definita salvavita, il cui beneficio non è quantificabile, che comporta un grande lavoro per almeno due paramedici contemporaneamente (vedi video). 

La cura del paziente a casa

Nelle mani del medico di medicina generale c’è  la grande responsabilità di tentare di curare in casa il paziente Covid in fase sintomatica intermedia: non è impresa da poco, considerata la carenza di dispositivi di protezione personale dei curanti e di linee guida chiare e validate almeno a livello nazionale per la terapia farmacologica domiciliare. Indicazioni chiare a questo proposito giungono dall’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo (revisione 27 marzo 2020), purtroppo tra i più ricchi di esperienza e sono riprese sul sito Sismed da Matteo Ciuffreda, cardiologo pediatra che lì lavora. 

Egli suggerisce, nella prima fase con sintoi lievi (paucisintomatica), di usare esclusivamente idrossiclorochina; sono esclusi i pazienti con maculopatia, perché il farmaco può dare depositi retinici. Per il resto, la cura è affidata all’idratazione, al riposo, all’alimentazione ricca di proteine e vitamine.

È però difficile dare torto ai molti medici di medicina generale che evitano di usare l’idrossiclorochina a domicilio, temendone gli effetti avversi. 

Come si legge su Lancet Infectious Diseases (che ha reso accessibili tutti gli articoli sul coronavirus, al pari delle altre più prestigiose testate di medicina), l’azione di clorochina e idrossiclorochina contro molti virus, tra cui quelli dell’influenza e i coronavirus, è dimostrata in vitro, ma è molto incerta negli animali e nell’uomo. Per contro, sono ampiamente provati gli effetti avversi degli antimalarici se le loro dosi non sono accuratamente calibrate sul paziente specifico e sulle sue eventuali terapie concomitanti.

L’entusiasmo divulgato dai media per questi farmaci rischia di indurre nella gente la tentazione dell’automedicazione e le agenzie sanitarie francesi hanno già reso noti casi di tossicità cardiaca da autosomministrazione di Plaquenil.

Se i sintomi peggiorano...

Se nel paziente peggiorano febbre e tosse (fase di viraggio iper-infiammatorio), i sanitari di Bergamo consigliano un doppio antibiotico (beta-lattamico o sulfamidico di terza generazione più azitromicina) per 5 giorni e la protezione gastrica con ranitidina o inibitori di pompa protonica (PPI). 

Non da ultima, è raccomandata la prevenzione antitrombotica con eparine a basso peso molecolare, ove non controindicata. L’isolamento sociale limita lo spazio di movimento del paziente e induce depressione e mancanza di motivazione all'esercizio fisico; quando arrivano la febbre, l’affaticamento e i dolori muscolari, inevitabilmente i pazienti stanno prevalentemente seduti o a letto, con aumento del rischio di trombosi venosa profonda. Si è visto, inoltre, che nella Covid-19 gli eventi trombotici e microembolici sono frequenti. 

L’uso del cortisone è, invece, dibattuto: sarebbe meglio riservarne l’uso all’ospedale, dove è possibile monitorarne l’utilità, che non è certa: una revisione sistematica di studi osservazionali sui corticosteroidi somministrati ai pazienti affetti da SARS aveva addirittura evidenziato un ritardo della clearance virale.

I trattamenti con altri farmaci per i pazienti con infezione sospetta o accertata da SARS- CoV-2 sono consentiti solo all’interno di trial clinici approvati da comitati etici.

 


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