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Dickens e il reddito di cittadinanza

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Illustrazione dall'edizione originale di "Oliver Twist"

Illustrazione dall'edizione originale di "Oliver Twist". Crediti: Simsalbim/Wikimedia Commons. Licenza: pubblico dominio

La proposta del “reddito di cittadinanza” non può non riportare alla mente di chi ha letto il romanzo "Il nostro comune amico" (Our mutual friend), il post-scriptum di Charles Dickens che accenna a una battaglia civile che lo scrittore condivise con la rivista The Lancet. Il primo numero di Lancet, giornale fondato dal chirurgo Thomas Wakley, uscì il 5 ottobre 1823 come rivista non solo di medicina ma, in un primo tempo, anche di “varia umanità”. Due anni dopo, il Lancet stampava più di 4.000 copie per numero: insomma, aveva un certo seguito tra gli intellettuali britannici del tempo e se ne serviva per denunciare gli aspetti più illiberali della politica del tempo, come il sistema educativo elitario e le tasse universitarie troppo onerose che limitavano l’accesso alla facoltà di Medicina dei giovani di famiglia povera.

Tornando al post-scriptum di Dickens, eccone i presupposti: nel XVI secolo, in Inghilterra, erano state codificate The Poor Laws (già in vigore fin dal tardo Medioevo, Old Poor Laws) che ponevano l'assistenza dei poveri a carico delle parrocchie. A tal fine, queste tassavano i redditi dei benestanti, che sopportavano l’onere come un male minore rispetto alla minaccia di una rivoluzione sociale.

Intorno alla metà del Settecento, la spesa per i poveri superava l’uno per cento del reddito nazionale e consentiva di assistere quasi un decimo della popolazione inglese. L’etica protestante del lavoro e del profitto, però, non avrebbe ammesso che un sussidio ricevuto senza lavorare finisse per generare file di disoccupati volontari: nel 1834, quindi, fu approvata dal governo inglese la New Poor Law o Poor Law Amendament Act, che sottraeva gli indigenti alle parrocchie e li confinava in ricoveri di mendicità chiamati workhouses, dove venivano impegnati in attività artigianali o agricole.

Inoltre, per non mantenere anche i poveri provenienti da altri territori del regno, venne promulgato un Act of Settlement che allontanava gli immigrati (con l’effetto collaterale, però, di scoraggiare anche gli spostamenti di manodopera necessaria).

Workhouses, una sensazione di déjà vu

Alle workhouses spettava non solo di tenere reclusi i poveri che erano in grado di lavorare, ma anche di curare quelli che si ammalavano e quelli vecchi e fragili. L’assistenza sanitaria era, però, fornita da medici presenti solo saltuariamente (d’altronde, va detto che essi erano mal remunerati e che dovevano pagare di tasca propria l’olio di fegato di merluzzo, il chinino e gli altri rimedi che intendevano usare) e da aiutanti, per lo più analfabeti, che erano scelti tra i ricoverati stessi: nel 1865, le infermiere pagate, ma non per questo sempre adeguatamente addestrate, erano solo 142 per gli oltre 20.000 ammalati indigenti di Londra.

Una tale situazione alimentò la critica dei cittadini più consapevoli e lo stesso Charles Dickens scriveva:

...dall’epoca degli Stuart non vi è stata una legge peggio amministrata, più spesso apertamente violata, tanto mal applicata (...) l’illecito è pari all’inumano

Florence Nightingale diede inizio a una campagna per la riforma del sistema infermieristico nelle case di lavoro e The Lancet pubblicò una serie di rapporti di biasimo per le condizioni insalubri, gli equipaggiamenti insufficienti e il sovraffollamento delle workhouses londinesi. In seguito a tale mobilitazione fu istituita una commissione (di cui faceva parte anche l’editore del British Medical Journal) che, nel corso di un periodo piuttosto lungo, dal 1867 al 1930, trasformò le lugubri infermerie delle case di lavoro in un comprensorio di quaranta ospedali con personale ben addestrato e fruibili da tutti, gettando le basi di quello che nel 1948 sarebbe diventato il National Health Service. In quell’anno, infatti, furono ufficialmente abolite le Poor Laws, con la promulgazione del National Assistance Act.

Oltre che l’idea del reddito di cittadinanza, la storia continuamente riportata da Dickens (in "Oliver Twist", per esempio) di una società con una massa crescente di diseredati cui applica la moralistica distinzione tra meritevoli e non, per accordare assistenza e diritto alla sopravvivenza, evoca la situazione delle carceri, dei centri di prima accoglienza e dei campi nomadi, dove reprobi e meritevoli combattono la stessa battaglia contro la malattia e l’abbandono aiutati solo da associazioni sostenute dalle offerte e dal lavoro di privati cittadini (come negli ambulatori dei Francescani di Milano, del Naga, di Emergency o di Medici senza Frontiere), in cui l’indignazione prende il posto lasciato vacante dall’azione pubblica.

E’ una storia che rimanda anche a quella di medicine che non vengono pagate se devono alleviare sofferenze disprezzabili, della carenza di farmaci per le malattie rare e del costo degli antimalarici e degli antiretrovirali che grava sul Terzo Mondo. A un Occidente che rivendica le sue radici nel cristianesimo e nell’illuminismo, ma che ne rinnega i pilastri (la carità e la tolleranza), la denuncia del Lancet di due secoli fa ricorda che la medicina non è solo progresso tecnologico e ricerca molecolare, ma anche avvocatura degli ultimi e difesa dell’uomo da chi, della sua salute, vuol fare mercato.

 


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