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Libertà di dragare i fiumi? No grazie!

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Piave River in Cimadolmo (Treviso)

Piave River in Cimadolmo, Treviso. (Wikipedia

Sebbene addomesticati e arginati, dentro le città i fiumi sono spesso l’unica oasi verde, ultimo avamposto naturale scampato al regno del cemento. Un retaggio antico, visto che fin dall’alba della civiltà l’uomo ha compreso i vantaggi di vivere lungo le loro sponde: disponibilità di acqua dolce per abbeverarsi, lavarsi e irrigare i campi, suoli fertili, forza lavoro gratuita da sfruttare tramite i mulini, alternativa alle vie di comunicazioni su strada, forziere di materiali inerti per l’edilizia. Nei secoli, la nostra dipendenza dai fiumi non è diminuita, tutt’altro.

Il loro sfruttamento si è intensificato, risalendo le aste fluviali fino alle sorgenti dei più piccoli torrenti per produrre elettricità. Buona parte dei corsi d’acqua sono stati rettificati e la loro portata regimentata, fossi e scoline sono stati tombinati, nelle zone di golena sono state costruite strade e persino abitazioni. Nella convinzione che l’addomesticamento dei fiumi sia totale, la maggioranza di noi ha finito per considerarli come un elemento immutabile, una presenza regolare o comunque regolabile, escluso dalla lista delle preoccupazioni quotidiane. Almeno finché un evento eccezionale, come l’emergenza meteorologica delle scorse settimane, non ci riporta bruscamente alla realtà, ricordandoci la fragilità idrogeologica del nostro territorio.

Il dissesto idrogeologico in Italia

Una fragilità che il cambiamento climatico può solamente esacerbare, come ribadito in questi giorni dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Nel mese di ottobre di quello che si prospetta come l’anno più caldo degli ultimi due secoli, l’intero Stivale è stato investito da una serie di eventi meteorologici estremi con gravi conseguenze per la popolazione, l’ambiente e lo stesso territorio. L’elemento che ha creato maggiore impatto è stato dapprima il vento, che il 29 e 30 ottobre ha soffiato costantemente con forte intensità. Diverse stazioni meteorologiche della rete nazionale hanno registrato velocità del vento dell’ordine di 100 chilometri orari con raffiche superiori ai 200.

Quindi è arrivata la pioggia. Le precipitazioni sono cadute abbondantemente su quasi tutto il territorio nazionale, con tempi e intensità diverse nelle varie regioni. Le precipitazioni cumulate giornaliere più elevate sono state registrate nelle zone prealpine, con valori di oltre 400 millimetri in Friuli-Venezia Giulia e di oltre 300 mm in Liguria, Veneto e Lombardia. Il bilancio delle vittime, per lo più travolte dalle piene di fiumi e torrenti o schiacciati dalla caduta degli alberi, è drammatico: dalla Valle d’Aosta alla Sicilia sono 30 le persone mancate. La conta dei danni è dell’ordine di alcuni miliardi, uno di essi a carico della sola provincia di Belluno, letteralmente annientata da frane, inondazioni e raffiche di vento. A livello nazionale, Coldiretti ha stimato lo stesso importo per i danni causati all’agricoltura e alla selvicoltura.

Secondo il più recente rapporto sul dissesto idrogeologico stilato dall’Ispra, nel 2017 erano risultati a rischio il 91% dei comuni italiani, un valore in crescita rispetto all’88% della precedente analisi del 2015. Circa un sesto dell’intero territorio nazionale ricade nelle classi di maggiore pericolosità per frane e alluvioni. In queste aree ad alta vulnerabilità risiedono oltre sette milioni di persone: un milione di esse vive in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata, le rimanenti in zone a pericolosità idraulica nello scenario medio, cioè alluvionabili durante i grandi eventi che si verificano con cadenza secolare. Secondo il rapporto, i valori più elevati di popolazione a rischio si trovano in Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria. Quasi il 4% degli edifici italiani, cioè oltre 550 mila costruzioni, è stato costruito in aree a rischio elevato e molto elevato di frana mentre oltre il 9% si trova in zone potenzialmente alluvionabili nello scenario medio.

Non c’è perciò da stupirsi che non appena le precipitazioni cadano più intensamente della norma, in buona parte del Paese scatti l’emergenza. “Non lo scopriamo oggi, gli eventi eccezionali semplicemente mettono a nudo i gravi problemi strutturali che da troppi anni affliggono il nostro sistema idraulico” chiarisce Luigi D’Alpaos, professore emerito di Ingegneria Idraulica dell’Università di Padova. “La verità è che non si è mai voluto affrontare il problema, continuando a rimandarlo. Il territorio è abbandonato a se stesso, persino le azioni di manutenzione ordinaria ormai vengono trascurate”.

In effetti, di tempo per correre ai ripari ce ne è stato: dopo la grande alluvione del 1966, la cosiddetta commissione De Marchi elaborò una sorta di piano Marshall per mitigare e mettere in sicurezza i fiumi e il territorio dal rischio idraulico. “Peccato che esso sia rimasto per lo più sulla carta: le amministrazioni preferiscono investire in opere visibili piuttosto che nella prevenzione” ragiona Alessandro Pattaro, ingegnere idraulico e ambientale. Nel frattempo, la mancanza di pianificazione e la cementificazione hanno indebolito ulteriormente un territorio già fragile.

Estrazione di inerti dai fiumi e pericolo di erosione

L’alluvione ha fatto tuonare il ministro dell’Interno Matteo Salvini contro gli “ambientalisti da salotto”, responsabili, secondo il suo punto di vista, di bloccare le opere di manutenzione degli alvei. Alle parole sono seguiti i fatti: nei giorni scorsi la Lega ha presentato alla Camera un progetto di legge che assegna poteri straordinari alle Regioni in tema di estrazione di inerti dal letto dei fiumi. I materiali saranno donati ai cavatori, come compensazione del lavoro svolto.

“È una misura priva di logica, le ghiaie devono essere impiegate nella manutenzione idraulica per migliorare la regimentazione. Un progetto di legge così strutturato serve solamente ad arricchire i privati” commenta D’Alpaos. Sulla stessa lunghezza d’onda è Pattaro: “Si tratta di una soluzione ingenua a un problema di grande complessità. Certamente, gli accumuli sono pericolosi perché in caso di piena, sabbia e ghiaia vengono trascinate dalla forza dell’acqua. Tuttavia, l’estrazione indiscriminata di inerti è altrettanto dannosa perché innesca processi erosivi, mettendo in crisi le opere di difesa idraulica”. Come una sorta di risposta immunitaria attraverso la quale il fiume cerca di ristabilire il proprio equilibrio, l’erosione si propaga, scavando l’alveo sia a monte sia a valle del sito di estrazione. Gli effetti non si esauriscono in superficie ma colpiscono pure il sistema delle falde sotterranee e i litorali: secondo l’Ente Nazionale per le nuove tecnologie e l’Energia (Enea) l’estrazione dei materiali inerti dai fiumi è la principale causa dell’erosione costiera.

Contratti di fiume e gestione collettiva

Nella paralisi idrogeologica di cui è vittima l’Italia, dove anche il più semplice intervento di messa in sicurezza può impiegare anni a concretizzarsi, sul territorio vanno diffondendosi alcune esperienze di gestione collettiva. È il caso dei contratti di fiume, uno strumento di democrazia partecipata “che valorizza le differenti conoscenze e competenze diffuse sul territorio. L’obiettivo è formare una rete tra istituzioni, cittadini e consorzi di bonifica, ma anche tra associazioni di ambientalisti, pescatori, agricoltori e tutti gli altri soggetti che, in un modo o nell’altro, beneficiano del fiume. È un cammino faticoso, fatto di compromessi e mediazioni talvolta estenuanti. Ma che oggi, a distanza di cinque anni, inizia a dare i suoi frutti” conclude Pattaro, coordinatore tecnico di uno dei primi esperimenti italiani. Sebbene questo approccio non rappresenti, con ogni probabilità, la risposta all’inadeguatezza dell’intero sistema idrico nazionale, bisognoso di investimenti e massicci interventi strutturali, ai contratti di fiume va riconosciuto un grande merito: aver riportato la gestione dei fiumi nella quotidianità delle persone. E non solo nelle emergenze.


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