Iscrizione in latino. Crediti: SCAPIN/Pixabay. Licenza: CC0 Creative Commons
C’è stato un tempo in cui, in certe famiglie borghesi, si usava dire che gli studi classici “aprivano la mente” anche per lo studio delle materie più tecniche e scientifiche; quando, poi, a tutte le facoltà universitarie hanno potuto iscriversi studenti provenienti da ogni tipo di scuola secondaria (ovviamente spesso brillanti, anche se privi di cultura umanistica), quella convinzione di stampo carducciano (“e so legger di greco e di latino e scrivo e scrivo e ho molte altre virtù”) è stata relegata tra i più polverosi luoghi comuni.
Ora, un articolo pubblicato sul Journal of General Medicine la riporta in auge, seppure in senso più lato, suggerendo, con i risultati di un ampio questionario alla mano, che la cultura umanistica attrezza i futuri medici contro la fatica, fisica ed emotiva, di affrontare la complessità della condizione umana (il cosiddetto burn-out) e aumenta in loro le doti empatiche e la capacità di decifrare i segnali. Purtroppo, l’argomento non era parso così importante agli oltre 3.000 studenti contattati, visto che solo il 30 per cento di loro ha completato il questionario. Eppure, come scrisse nel 1919 William Osler, padre della medicina moderna immortalato in moltissimi eponimi di sindromi e malattie, “le scienze e l’umanesimo sono frutti dello stesso ramo e li si danneggia entrambi, se non li si vede come complementari”.
Nell’anno accademico 2003-2004 del corso di laurea in medicina di Harvard, il corso di semeiotica fisica (la rilevazione dei segni sul corpo umano malato) essenziale per selezionare gli esami specialistici utili alla diagnosi, si è svolto in parte nel Museum of Fine Arts di Boston e si è avvalso della Visual Thinking Strategy, ideata dalla psicologa cognitivista Abigail Housen per affinare la capacità di vedere, oltre che di guardare; nel 2015, la Visual Thinking Strategy è entrata anche all’Università La Sapienza, in collaborazione con la galleria Borghese di Roma.
I libri di Nicola Gardini
In generale, però, la cultura umanistica non gode di buona stampa nei governi italiani degli ultimi vent’anni, che ne vorrebbero eliminare tutti gli orpelli dai licei, per assegnare loro il compito di fornire il know how per l’utilizzo delle nuove tecnologie. In controtendenza, Nicola Gardini, che insegna letteratura comparata a Oxford, ha scritto un libro inneggiante allo studio del latino (Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, Garzanti, 2016, seguito da Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo, Garzanti, 2018), che fornirebbe strumenti logici per affrontare la crescente complessità del mondo, la traccia per esplorare la lingua italiana e non solo questa (“sotto il giardino della lingua quotidiana, c’è il tappeto delle radici antiche”) e la chiave per comprendere la civiltà che si è evoluta in Europa e le regole giuridiche e morali delle popolazioni che la abitano (in una parola, il loro codice identificativo); questi argomenti sono quelli che meglio rispondono a chi obietta che lo studio di questa lingua morta potrebbe essere sostituito da quello di lingue vive sintatticamente complesse o anche del gioco scacchi.
Latino, un'operazione culturale
Il latino, idioma indoeuropeo parlato nell’Italia centrale fin dal I millennio a.C., arricchito dall’etrusco, da altri idiomi italici autoctoni e dal greco, dilagò “imperialisticamente” in molta parte del continente europeo e nell’Africa mediterranea. Dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, si continuò a parlare latino almeno fino al settimo secolo e ancor più a lungo a scriverlo; oltre che nelle lingue romanze, che ne discendono direttamente, il latino si è infilato anche in molte parole delle lingue moderne di altri ceppi. Continuare a studiare il latino, ora che nessuno (nemmeno in chiesa) lo parla più, è un’operazione culturale e, come tutte le operazioni culturali, ha l’apparenza della futilità e l’essenza dell’imprescindibilità. Come scrive Gardini, “il latino è il più vistoso monumento alla civiltà della parola umana e alla fede nelle possibilità del linguaggio” e ciò che si ricava dal suo studio sono, oltre alla coscienza storica, l’educazione alla bellezza e l’abitudine al metodo scientifico.
Il latino è bello, perché musicale: le parole, in prevalenza piane e talvolta sdrucciole (con l’accento distintivo fissato sulla penultima sillaba, se lunga o sulla terzultima, se la penultima è breve), scandiscono un’alternanza di battere e levare che conferisce ritmo e melodia alla frase principale; il tessuto delle subordinate (così embricate e, a volte, nascoste) ne costituisce, invece, l’armonia. La maggiore musicalità della lingua latina rispetto ad altri idiomi con matrice linguistica indoeuropea è dovuta anche alla più calibrata quantità delle vocali e delle consonanti, alla conservazione dei dittonghi e delle consonanti velari e labiovelari, alla trasformazione dalle consonanti aspirate in consonanti sonore.
Tradurre dal latino favorisce lo sviluppo delle capacità logiche, guidate dalla struttura morfologica della lingua, che indirizza l’interpretazione del testo flettendo i nomi (declinandoli) e i verbi (coniugandoli): l’azione viene, così, situata in un tempo ben definito, colta nel suo svolgimento o nella sua compiutezza, distinta come certamente da fare o ancora nella sfera della velleità e, infine, contestualizzata e precisata da altre proposizioni poste più spesso in subordinazione che in coordinazione (prevalenza del sistema ipotattico su quello paratattico).
Il latino è una lingua inversiva: lo scrittore, cioè, può modificare l’ordine in cui situa le parole nella frase, non solo in base alla loro importanza, ma anche in base al suono che produce la loro vicinanza e che dà luogo agli effetti dell’arte oratoria. Ciononostante, i casi, i modi, i tempi e l’enorme ricchezza del suo vocabolario ne fanno una lingua esatta: il latino, infatti, è la lingua della giurisprudenza, perché non lascia spazio a malitesi o fraintendimenti. E’ anche una lingua capace di una sintesi tanto concisa quanto incisiva; persino la Francia, pure così autocefala da disdegnare gli ubiqui termini informatici inglesi, dopo gli attentati del Bataclan ha fatto ricorso al latino, quando si è paragonata a una nave che fluctuat nec mergitur.
Versione più che traduzione
Da queste premesse si comprende che l’esercizio di tradurre un testo latino (“lingua limpidissima, ma abissale”) implica la messa in campo di una serie di abilità ricognitive che vanno ben oltre la comprensione del significato di ogni singolo vocabolo: la traduzione deve individuare il soggetto e la sua azione, l’essenziale e l’accessorio e scegliere, all’interno del valore multi semantico del complemento, quello più vicino alle intenzioni dell’autore e all’indole della lingua. Bene fanno gli studenti a chiamarla “versione”, perché questo termine ha, certo, il significato di “riversamento” di un concetto da una lingua in un'altra, ma anche quello di “variante interpretativa” e, come tale, provvisoria: “quando il significato di tutte le parole è rivelato, un mistero rimane; un alone, un’ombra, comunque si voglia chiamare l’atmosfera gassosa che circonda la concatenazione dei segni e dei suoni e che appartiene a una fase primigenia del linguaggio, quando i simboli grafici non sono ancora associati automaticamente a certi significati”. Ciò esclude che l’esercizio della traduzione possa passare dall’allineamento dei termini della frase nell’ordine che avrebbero in italiano: tale operazione davvero farebbe del latino una lingua morta e sottoposta a una dissezione anatomo-patologica!
Studiare il latino alle superiori rientra, a pieno titolo, nella complementarietà auspicata da Osler tra scienze e umanesimo, perché crea nei ragazzi l’attitudine a ordinare mentalmente le fasi di una ricerca, a cercare la traccia germinativa invisibile nel segno manifesto (e, quindi, ad applicare il metodo scientifico) e, infine, ad attribuire significato e pertinenza alle parole che si proferiscono (e, quindi, ai pensieri che si formulano); in una parola, ad avere la responsabilità delle proprie azioni.
Bibliografia
Gardini N. Viva il latino. Garzanti (pp. 238, euro 16,90)
Osler W. The old humanities and the new science. The Presidential Address delivered before the Classical Association at Oxford, May, 1919. Br Med J 1919; 2: 1-7
Mangione S, Chakraborti C et al. Medical students' exposure to the humanities correlates with positive personal qualities and reduced burnout: a Multi-Institutional U.S. Survey. J Gen Intern Med 2018; 628-34
Ferrara V et al. Art and medicine: from anatomic studies to Visual Thinking Strategies. Senses Sci 2015; 2: 40-44