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L'università italiana scopre la didattica

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Una lezione di Visual Storytelling al Politecnico di Milano. Scuola del Design, 2014 (foto: Matteo Bergamini).

In questo articolo parlerò di “valutazione della didattica” e dei piani strategici dell’Europa per lo sviluppo e il miglioramento dell’istruzione superiore. Ne parlerò a partire dall’esperienza che ho accumulato negli ultimi vent’anni come docente a contratto in varie università, italiane e straniere. Tenterò anche di fare dei raffronti tra università appartenenti al mondo anglosassone e università italiane. Per evitare tuttavia di portare unicamente la mia personale esperienza, ho provato a chiedere in maniera informale a una decina di amici docenti (ordinari e associati, di materie umanistiche e di materie scientifiche con ampia esperienza in varie università italiane) un parere sintetico – in cambio dell’anonimato - sulle novità nel campo della didattica per ora realizzate nei loro atenei. La sintesi di alcune delle loro risposte a una delle mie domande (“Rispetto a cinque, dieci, venti, trenta anni fa è cambiato qualcosa nella didattica?”) ve la fornirò più avanti nell’articolo, se avrete la pazienza di seguirmi.

Permettetemi di iniziare con la mia esperienza. La prima “visita in classe” da parte di valutatori della didattica durante una mia lezione universitaria l’ho ricevuta nel 2010. Avevo da poco iniziato a insegnare nel campus milanese del consorzio di università statunitensi IES Abroadche, fondato nel 1950, raggruppa oggi 235 college, tra cui anche prestigiose istituzioni come Yale, Harvard, MIT, Carnegie Mellon, Johns Hopkins, Brown, Cornell, University of California. Gli osservatori, cioè l’Academic Dean (la Preside) e il direttore del centro di Milano, dopo avermi preventivamente avvertito della data della loro visita, hanno assistito a una delle mie lezioni a studenti americani in trasferta di studio per un semestre in Italia (qualcosa di paragonabile agli scambi Erasmus+ dei nostri studenti europei). Durante tutta la lezione, preside e direttore hanno annotato sui loro taccuini il modo in cui spiegavo la materia, come mi rivolgevo agli studenti, come riuscivo (o non riuscivo) a coinvolgerli, quale mix di metodologie didattiche adottavo (lezione frontale, lavoro di gruppo, discussione collettiva, ecc.), come mi muovevo davanti ai miei alunni, il tono della mia voce, la prossemica, quali sussidi didattici e strumentazione ICT utilizzavo, come rispondeva la classe ai miei stimoli, e via dicendo. Al termine hanno ringraziato, mi hanno salutato e se ne sono andati.

Qualche giorno dopo, mi è stata inviata una relazione dettagliata della visita, contenente una prima parte basata su osservazioni puramente descrittive, che erano per quanto possibile neutre, una seconda parte di annotazioni relative alle componenti positive del mio insegnamento e infine anche una terza parte di suggerimenti sulle criticità rilevate, contenente spunti concreti per migliorare l’efficacia della mia didattica. Senza esserne consapevole, ero stato testimone e protagonista di una cosiddetta classroom visit, una delle componenti delle strategie di faculty development da molti anni in uso in molte università degli Stati Uniti, dove è prassi corrente monitorare la performance dei docenti e dove sono attivi centri per l’insegnamento e l’apprendimento dotati di personale e programmi in grado di fornire supporto continuo agli insegnanti sul versante della didattica.

La classe del corso di Photography ad IES Abroad Milano, 2018.

Da allora, semestre dopo semestre, ho continuato - e continuo tutt’oggi - a insegnare a IES Abroad Milano e periodicamente continuo a ricevere, come tutti i miei colleghi, visite in classe durante le mie lezioni, da parte di personale sia interno al centro, sia proveniente da altre Università o dalla casa madre di Chicago, sede di IES Abroad, il più longevo e rispettato programma di studi all’estero degli USA. Alle visite segue normalmente un report dettagliato che individua, con un approccio sempre costruttivo, punti di forza e punti “migliorabili” della performance didattica del docente. Inoltre, all’inizio e alla fine di ogni semestre, vengono organizzati momenti di incontro con tutti gli altri docenti, finalizzati allo scambio di buone pratiche come pure di osservazioni riguardanti l’efficacia (o il parziale fallimento) del nostro impegno nell’innovare la didattica.

Va da sé che agli studenti vengono anche somministrati questionari di valutazione a fine corso, proprio come da qualche anno si fa anche in Italia (anche se il decreto che ne istituiva l’obbligatorietà risale al 1999). Nelle Università statunitensi l’utilizzo di questi strumenti conoscitivi però ha iniziato a diffondersi quasi mezzo secolo prima, già negli anni ’60. Le domande a cui gli studenti devono rispondere nel questionario IES Abroad sono molto simili a quelle presentate agli studenti degli atenei italiani. La differenza principale sta nel fatto che nella struttura americana noi docenti al termine di ogni semestre siamo invitati - uno ad uno - a prendere visione del questionario assieme al direttore, per valutare assieme le debolezze, le aree in cui è possibile un miglioramento e i punti di forza da continuare a proporre secondo le stesse modalità. Non è raro il caso in cui, dopo ripetute valutazioni mediocri o negative, a qualche docente non venga rinnovato il contratto: faccenda di semplice soluzione, essendo noi tutti docenti non strutturati.

Nella tradizione delle università anglosassoni si usano anche le valutazioni di metà semestre (Midterm). Non sono obbligatorie e non sono raccolte dall’Ateneo per farne uno strumento di valutazione. Sono invece un utilissimo strumento a disposizione del docente basato su risposte anonime per sapere “come sta andando il corso”, e sono anche l’occasione per intervenire tempestivamente portando delle modifiche al corso, mentre è ancora in pieno svolgimento. Le domande allo studente infatti sono colloquiali e informali, a risposta libera, del tipo:

  • Come ti senti riguardo all’andamento del corso fino a ora?
  • Quali strategie di insegnamento in classe si sono rivelate più utili per il tuo apprendimento?
  • Hai idee costruttive per il docente che riguardano aspetti migliorabili? Sii specifico.
  • Cosa potresti fare, tu studente, per migliorare la tua esperienza di apprendimento in classe?

In più ci sono altre domande riguardanti la difficoltà del corso, il carico di lavoro, il ritmo (o velocità) adottato dal docente nello spiegare concetti nuovi durante le lezioni, e altro. Un’altra domanda (doppia) che io trovo sempre molto interessante è la seguente:

  • Qual era il tuo livello di interesse per la materia PRIMA di fare il corso, a risposta multipla con scelta tra cinque valori (da molto basso a molto alto),
  • Qual è il tuo livello di interesse per la materia ORA (sempre da molto basso a molto alto).

Pur nella estrema essenzialità del giudizio, quasi a livello di un LIKE da Social Network, il differenziale tra il prima e il dopo può rivelare, meglio di qualunque altra domanda, se lo studente, a prescindere dal livello di partenza, sta apprezzando il corso. Il docente può sapere così, già a metà percorso, quanti studenti lo stanno seguendo con interesse e questo dato può rappresentare per il docente, se dispone anche di altre informazioni, una buona occasione per affrontare con onestà e serietà i punti deboli della sua didattica.

Oltre che nella realtà statunitense finora descritta, insegno da molti anni anche in altre università italiane, sempre come docente a contratto: nel Master in Giornalismo dello IULM, nella Scuola del Design del Politecnico di Milano, e in vari Master di Comunicazione della Scienza, tra cui quello della SISSA di Trieste. L’esperienza che ho come docente universitario quindi si riflette inevitabilmente su quanto sto per scrivere ed è caratterizzata da due fattori: 1) non sono un professore incardinato ma un docente a contratto e 2) è molto influenzata dalle pratiche in uso nell’accademia americana. Non mi stupirò dunque se quanto state leggendo potrà suscitare critiche, incomprensioni o prese di distanza.

Torniamo ora al tema più generale della valutazione della qualità della didattica nell’istruzione superiore in Europa. Per rintracciare le basi della convergenza dei sistemi universitari dei Paesi Membri dell’Unione Europea verso obiettivi comuni occorre partire dalla Dichiarazione del 1999, firmata dai paesi che hanno partecipato al cosiddetto Processo di Bologna che ha varato una serie di misure destinate a creare lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore (EHEA).

Nel 2000 è stata poi istituita l’ENQA (European Association for Quality Assurance in Higher Education) che nel 2005 – e, ancor più recentemente, nel 2015 - ha predisposto gli ESG (Standards and Guidelines for Quality Assurance), linee guida e standard che gli Atenei, nella loro indipendenza, si impegnano a seguire e rispettare per raggiungere l’obiettivo dell’assicurazione della qualità, nel rispetto della legislazione di ogni stato membro e degli impegni assunti con i portatori di interessi (primi tra tutti: studenti, famiglie, docenti, enti sul territorio e mondo del lavoro). Tutti i paesi aderenti al Processo di Bologna si sono attivati per la realizzazione di un sistema di assicurazione della qualità, ma ad oggi non tutte le agenzie nazionali create a questo scopo hanno ricevuto l’approvazione come membri a pieno titolo dell’ENQA. Tra queste l’agenzia italiana ANVUR, che ancora non rispecchia appieno gli Standards e le Guidelines previsti ed è perciò al momento solo “affiliata” all’ENQA.

Non è questa la sede adatta per ripercorrere il lungo iter che ha portato alla creazione, nel 2006, dell’ANVUR (passando per l’OSVU, nel 1996, il CIVR nel 1998 e il CNVSU nel 1999), un ente pubblico i cui membri sono nominati dal MIUR e che è vigilato dallo stesso MIUR. Per inciso, è proprio questo legame troppo stretto con il Ministero a non soddisfare i criteri di indipendenza e autonomia richiesti dall’ENQA alle agenzie di valutazione. Tra i compiti dell’ANVUR, oltre alla valutazione delle attività connesse con la ricerca e la cosiddetta terza missione, vi è dunque anche quello della valutazione dell’efficienza e dell’efficacia della didattica. Ma se da un lato risultano fondamentali le sue funzioni di valutazione della performance delle Università ad un livello più ampio, per obiettivi, tipico della Pubblica Amministrazione, risultano per ora limitate o assenti le capacità di entrare nel merito della valutazione nel dettaglio della didattica, corso per corso, docente per docente, e soprattutto la possibilità di produrre cambiamento. L’agenzia infatti svolge, sì, funzioni di indirizzo del CONVUI (Coordinamento Nazionale dei Nuclei di Valutazione Universitari Italiani) predisponendo procedure uniformi per la rilevazione della valutazione dei corsi da parte degli studenti, ma sembra invece avere per ora un’attenzione rivolta più a oggetti di analisi macroscopici (le università, i dipartimenti, i Corsi di Studio, le attività istituzionali e i loro prodotti) e solo in minima parte e in maniera aggregata all’operato dei singoli docenti.

Anche il sistema AVA di Autovalutazione, Valutazione Periodica e Accreditamento (introdotto nel 2013 e riformato nel 2017), al di là delle definizioni e degli obiettivi dichiarati (“verificare e garantire la qualità della didattica e della ricerca svolte negli atenei”) sembra essere più adatto, attraverso le sue Commissioni di Esperti della Valutazione (CEV) a verificare nel loro complesso i corsi di studio e gli atenei che non a entrare nel merito di ciò che ogni docente insegna e soprattutto come lo insegna.

E del resto qui entra il gioco un caposaldo delle libertà democratiche nel nostro paese: la libertà di insegnamento, sancito dal primo comma dell’articolo 33 della Costituzione: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Articolo che stabilisce inequivocabilmente, estendendo la portata dell’Articolo 21 relativo alla libertà di manifestazione del pensiero, che non è ammessa una cultura e un’arte di Stato e che non è accettabile alcuna costrizione né alcun condizionamento da parte dei poteri pubblici nei confronti della scuola e dell’Università. La genesi di questo articolo della Costituzione, nata dopo la devastazione e i lutti dovuti a cinque anni di guerra mondiale e dopo oltre venti di regime fascista, sembra rispondere all’esigenza di sottolineare che non è accettabile in una democrazia ciò che invece Mussolini nel settembre 1935 aveva esplicitamente dichiarato al Consiglio Nazionale dell’Educazione:

“poiché nella scuola passano tutti gli Italiani, è necessario che essa, in tutti i suoi gradi, sia intonata a quelle che sono, oggi, le esigenze spirituali, militari, economiche del Regime. Bisogna che la scuola, non soltanto nella forma ma sopra tutto nello spirito (…) sia profondamente fascista in tutte le sue manifestazioni”.

I padri costituenti sembrano essersi fatti guidare nel formulare l’articolo 33, dalla riflessione di John Stuart Mill contenutanel suo saggio On Liberty (1859):

“Un’educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito dal potere dominante – sia esso il monarca, il clero, l’aristocrazia, la maggioranza dei contemporanei – in quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quello sul corpo.”

Data dunque per scontata l’importanza fondamentale della libertà di insegnamento in un moderno stato democratico, sorge spontaneo il dibattito sulle possibili limitazioni a cui questa libertà debba sottostare. Sono limitazioni che trovano fondamento nei doveri di solidarietà collettiva, specie nei confronti degli studenti, i destinatari naturali dell’insegnamento, la cui coscienza civile e morale deve essere rispettata. Ne deriva una possibile contrapposizione tra diritto alla libertà di insegnamento e dovere dell’insegnante di fornire un’attività educativa adeguata, dunque sottoposta a vincoli e regole imposte da altri.

In Italia i docenti, soprattutto universitari, sono certamente poco abituati e mediamente refrattari a mettere in discussione i propri metodi didattici, ad accogliere critiche e proposte di modifica delle proprie strategie di insegnamento, figuriamoci poi ad aprire ad altri (a degli osservatori esterni) le aule dove si svolgono le proprie lezioni. Questo atteggiamento di chiusura, assai diffuso, ricorda – concedetemi questa immagine dissacrante – quella casalinga di un Carosello degli anni ’70 che, di fronte all’ipotesi di mostrare l’interno del proprio forno, probabilmente incrostato e meno lindo rispetto alle superfici impeccabili del resto della cucina, si barrica, disperata e implorante davanti al forno chiuso urlando il suo risoluto: “Nooo, il forno nooo!”.

Fotogramma tratto dalla pubblicità su Carosello del Fornet (1971): Nooo, il forno nooo! (Guarda su Youtube)

E’ risaputo che anche le valutazioni tramite questionari, richieste alla fine di ciascun corso agli studenti, raccolte dagli atenei e poi inviate al Nucleo di Valutazione e alla Commissione Paritetica Docenti-Studenti e da questi ai presidenti dei Corsi di Studio affinché, almeno nei casi più problematici (valutazioni basse o molto basse) convochino gli insegnanti, raramente hanno portato fino ad oggi a qualche sostanziale modifica dei metodi usati dal docente in questione. Uno dei colleghi da me interpellati, ordinario a Milano, mi ha confidato che si è trovato, in quanto coordinatore del CdL, a intervenire con una sorta di moral suasionnei confronti di un collega che, a fronte di una valutazione media di 70 (su 100) tra tutti i docenti, si distingueva (se così si può dire) per una valutazione da parte degli studenti di 15/100. Effetto ottenuto: nullo.

Visualizzazione delle valutazioni assegnate dagli studenti al docente del corso di geofisica (Università di Firenze).

Le risposte degli altri amici docenti a una delle mie domande, (“Rispetto a cinque, dieci, venti, trenta anni fa è cambiato qualcosa nella didattica?”), si riassume in questa frase diplomatica di un ordinario dell’Università di Sassari: “Nel tempo la legge Gelmini e le direttive europee hanno solo fatto aumentare sensibilmente la burocrazia della gestione dei corsi di Laurea, ma nella sostanza la qualità della didattica è rimasta sostanzialmente allo stesso livello, cioè legata all'iniziativa e all'impegno personale del singolo docente. In Italia nessuno insegna ad insegnare, a nessun livello.” Le risposte a questa stessa domanda degli altri amici docenti concordano, alcune con toni più colloquiali e scanzonati, come quella di un professore ordinario nell’Università di Pisa: “E’ cambiato poco: si compilano delle scartoffie, i registri, i diari delle lezioni, gli studenti ti giudicano, ecc. ma ognuno poi fa quel che gli pare e piace, se è bravo è bravo, se fa schifo fa schifo.” Altra risposta, da parte di un ordinario dell’Università di Padova: “Qualcosa è cambiato, probabilmente nell’attenzione al tema, purtroppo più formale che sostanziale. Resta come sempre che i buoni docenti lavorano largamente con un metodo proprio e non standardizzato e che i cattivi docenti difficilmente potranno migliorare, qualsiasi cosa gli si consigli di fare.”

Cosa dunque si sta facendo concretamente? Dal sito Universitaly, portale del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, nella pagina appositamente dedicata all’Accreditamento periodico degli atenei che si suppone aggiornata, vediamo che fino ad oggi, a fronte di 99 atenei censiti, soltanto 25 sono stati valutati dalle varie CEV (Commissioni di Esperti della Valutazione), pari un quarto, e quindi rimane il 75% del lavoro ancora da fare. Si legge anche che l’accreditamento periodico è stato avviato nel 2015 e che avrà cadenza almeno quinquennale per le sedi e almenotriennale per i corsi di studio. Fatti due conti, se in tre anni e mezzo è stato accreditato un quarto delle sedi, è legittimo chiedersi grazie a quali prodigiose accelerazioni ed efficientazioni del sistema di valutazione procederanno i lavori nei prossimi mesi per poter accreditare, entro la fine del 2019, il rimanente 75 per cento degli atenei? Negli anni scorsi, si è proceduto al ritmo di 10-15 atenei l’anno. Nel 2018 sono previste e calendarizzate altre 16 visite.

In attesa del Terzo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2018, presentato il 12 luglio 2018, ma non ancora pubblicato sul sito dell’ANVUR (pubblicazione prevista per la fine di luglio 2018), leggiamo nel Secondo Rapporto, del 2016, il più recente al momento disponibile, che per ogni ateneo vengono valutati a campione soltanto il 10% dei Corsi di Studio a causa dell’esiguità del personale ANVUR disponibile (poco più di una ventina di dipendenti in tutto) a fronte di un centinaio di atenei e circa 4.300 CdS. Va tenuto presente che le visite periodiche devono valutare i numerosissimi parametri che concorrono alla verifica del possesso dei requisiti in termini di organizzazione interna, della qualità della didattica e della ricerca nelle singole Sedi, al fine di assegnare una valutazione che collochi ogni ateneo in una delle seguenti classi di giudizio: molto positivo, pienamente soddisfacente, soddisfacente, condizionato, insoddisfacente. Una rapida verifica evidenzia più di un caso critico, con accreditamento sotto condizione. Nel secondo capitolo "Learning and teaching" del rapporto "The European higher education area in 2018. Bologna Process implementation report" si analizzano i sistemi utilizzati dalle varie università per valutare la didattica. Come si vede nel grafico qui sotto, il metodo dei questionari distribuiti agli studenti è adottato da quasi il 90% degli atenei nei vari stati, mentre altri metodi, quali il dialogo da parte del Preside della facoltà che discute con i singoli docenti è diffuso solo nel 47%. Da notare inoltre che sono rappresentati soltanto le università che hanno risposto: "questi metodi sono in uso in tutta la nostra università."

Vediamo ora cosa è stato realizzato da parte di alcuni atenei, parallelamente al processo di valutazione “a livello di sistema”, quello ad opera dell’ANVUR fin qui descritto. Parliamo di università evidentemente più sensibili culturalmente al tema della ricerca e della riflessione intorno alla didattica universitaria. Tra questi possiamo citare l’Università di Padova, quella di Torino e quella di Palermo, anche se siamo consapevoli che altri progetti analoghi hanno probabilmente già visto la luce negli scorsi mesi e altri potranno aggiungersi. Mancando tuttavia un coordinamento nazionale per questo genere di iniziative, nate in maniera spontanea e indipendente dal Ministero, per ora siamo ancora in una fase in cui si sperimentano progetti per aumentare la qualità della docenza attraverso percorsi formativi che mirano a fornire ai docenti maggiori competenze pedagogico-didattiche.

In questo senso, l’Università di Padova, pionieristicamente, ha organizzato fin dagli anni ’90, attraverso il suo Dipartimento di Scienze dell’Educazione, delle Biennali Internazionali sulla Didattica Universitaria, affrontando nei convegni che ha organizzato temi quali “la formazione Universitaria degli insegnanti” (nel 2004). Tra il 2006 e il 2010, una ricerca in due fasi coordinata dalla Prof.ssa Raffaella Semeraro, ha ideato uno strumento per l’autovalutazione dei docenti, basato su una forte componente autoriflessiva, che trae ispirazione da ricerche condotte in università statunitensi e australiane. Ancora nel 2014-2016 un gruppo di lavoro creato dal Prof. Felisatti ha adottato una prospettiva internazionale con la proposta di istituire un “Teaching and Learning Center” in collegamento con università americane e inglesi. Ancor più recentemente, un progetto PRIN ha consentito alla Prof.ssa Monica Fedeli e altri docenti e ricercatori di porre le basi per creare il gruppo Teaching 4 Learning anche attraverso scambi con altri atenei Italiani e forti legami di collaborazione a livello internazionale, in particolar modo con Stati Uniti e Canada. Il programma prevede, e ha già erogato fin dal gennaio 2017, corsi per i docenti dell’ateneo padovano, basati sull’approccio centrato sull’apprendimento (learner centered), sulla collaborazione tra docenti, e tra docenti e studenti, sulla promozione di curricula innovativi in linea con le raccomandazioni europee, sulla formazione e il sostegno alla professionalità docente. I dati presentati dal Rettore dell’Università nel corso di un convegno, svoltosi nel mese di giugno 2018 all’Orto Botanico di Padova parlano di 270 docenti dell’Università di Padova finora coinvolti. Un numero destinato ad aumentare rapidamente quando i docenti coinvolti potranno a loro volta estendere il loro nuovo modus operandi didattico insegnandolo a nuovi docenti, “contaminandoli”, come ha suggerito il Prof. Gary Poole, dell’Università della British Columbia, nel corso del suo Keynote speech al convegno.

Padova Convegno Orto Botanico 5 giugno 2018 – Prof. Gary Poole

L’Ateneo di Torino, con il Progetto Iridi (Incubatore per la Ricerca e lo sviluppo della Didattica), partendo anch’esso dalle esperienze riportate nella letteratura internazionale, propone interventi formativi che intendono promuovere nei docenti coinvolti la consapevolezza delle scelte didattiche adottate, la capacità di analizzare l’incidenza dell’insegnamento sull’apprendimento degli studenti, l’adozione di strategie didattiche innovative, la competenza nella scelta di strategie valutative affidabili. Già nell’anno accademico 2017-2018 sono stati coinvolti 50 docenti di varie discipline e con vari livelli di esperienza che hanno affrontato un percorso formativo di 30 ore articolato in dieci interventi distribuiti nell’arco dell’intero anno accademico. Per il nuovo anno si replica questo percorso di primo livello e prosegue la formazione di secondo livello con i docenti già coinvolti in passato.

L’Università di Palermo, su proposta del Presidio di Qualità, ha avviato nel 2016 il Programma “Mentore per la didattica”, diffondendo un progetto avviato già nel 2013 nel CdS di Ingegneria. Il programma prevede un’attività di osservazione e tutoraggio dei docenti che si rendono disponibili e la partecipazione a incontri di studio e approfondimento sul processo didattico.

Questi progetti sono al momento su base volontaria e i numeri dei docenti coinvolti sono decisamente esigui, se rapportati al numero totale dei docenti dell’accademia italiana, nella quale lavorano quasi 45 mila docenti (44.743 tra ordinari, associati e ricercatori) e si superano i 47 mila se si considerano anche le università private (dati dal sito CercaUniversità del Cineca). La quasi totalità di questi docenti non ha mai seguito un corso di pedagogia: nessuno di loro ha mai imparato in maniera formale - e non soltanto empirica - come si insegna, quali metodologie e quali strategie pedagogiche seguire.

Dunque qualcosa si muove anche nell’università italiana, seppur lentissimamente e con grande ritardo rispetto al complesso dei paesi anglosassoni. Sono infatti passati oltre vent’anni dalla pubblicazione sulla rivista Change dell’articolo che Robert Barr e John Tagg, due studiosi statunitensi, hanno scritto nel 1995. Un articolo dal titolo inequivocabile, destinato a diventare una pietra miliare nella storia della didattica universitaria: “Dall’insegnamento all’apprendimento. Un nuovo paradigma per l’educazione universitaria” che comincia così:

“Un cambiamento di paradigma si sta imponendo nell'istruzione superiore americana. Il paradigma che ha governato finora le nostre università è stato questo: un college è un'istituzione che esisteper fornire insegnamento. In maniera impercettibile ma profonda ci stiamo spostando verso un nuovo paradigma: un college è un'istituzione che esisteper produrre apprendimento. (…) Stiamo cominciando a riconoscere che il paradigma dominante ha confuso i mezzi con il fine. Prende infatti il mezzo, o se vogliamo il metodo, chiamato "istruzione" o "insegnamento", e lo rende il fine o lo scopo dell’università. Dire che lo scopo delle scuole è quello di fornire insegnamento è come affermare che la mission di General Motors è di far funzionare le catene di montaggio [anziché quello di produrre automobili n.d.t.] o che lo scopo del sistema sanitario è quello di riempire letti d’ospedale [anziché quello di prestare assistenza ai malati n.d.t.]. Ma ora ci stiamo accorgendo che la nostra missione non è l’istruzione, ma piuttosto produrre apprendimentoin ogni studente, usando i metodi che funzionano meglio.” [neretto nel testo originale]

Nel sistema anglosassone, all’interno delle università, le iniziative di Faculty Development, vale a dire azioni volte al miglioramento della qualità della didattica, sono iniziate nella seconda metà degli anni ’70. Negli ultimi vent’anni moltissime università anglosassoni si sono dotate di un Center for Teaching and Learning, che ha lo scopo di favorire la diffusione di buone pratiche e anche di prevedere periodicamente premi e incentivi per i docenti migliori. Qualche anno fa IES Abroad mi ha mandato - a sue spese - a seguire un corso residenziale di tre giornate negli USA, poco lontano da New York, dal titolo “What the best college teachers do”, tenuto da Ken Bains, un docente con lunga esperienza nella didattica innovativa che è anche l’autore del volume che vedete nella foto qui sotto. Non ho mai osato chiedere se l’essere stato mandato fosse da considerarsi come un premio o se il vero motivo sia stato che la mia didattica all’epoca aveva bisogno di un significativo miglioramento!

Per tornare all’episodio con cui ho aperto questo lungo articolo, la temuta “class visit” durante una mia lezione a studenti americani, c’è un’affermazione del prorettore di Yale, Scott Strobel, a proposito di queste pratiche:

“Vogliamo fare in modo che l’insegnamento a Yale sia una pratica pubblica. L’idea è che i docenti possano vedere ciò che i colleghi fanno, cosa nel loro modo di insegnare funziona e che ne possano discutere collegialmente scambiandosi informazioni e buone pratiche.”

Questo approccio ha a che fare con il concetto di Knowledge management, termine usato per indicare la gestione del sapere (la conoscenza, l’informazione) interno ad un’organizzazione, inteso quale insieme di strategie, pratiche, esperienze e processi aziendali e individuali, espliciti ed impliciti. E anche di Knowledge sharing. L’obiettivo è quello di migliorare l’efficacia e l’efficienza lavorativa, mettendo in comune e rendendo perciò accessibile a tutti la conoscenza maturata nel tempo da ciascun membro e dall’organizzazione stessa. E anche di accrescere il vantaggio competitivo dell’organizzazione stessa rispetto ai propri concorrenti. Che questo concetto si possa e si debba applicare anche all’università mi pare interessante. Che questo possa avvenire in Italia in tempi ragionevoli, dipenderà da molti fattori.

La mia esperienza personale, per quel che conta, mi suggerisce che molto del bagaglio di metodologie e strategie didattiche che ho imparato a contatto stretto con il sistema accademico americano lo sto trasportando e utilizzando nei miei insegnamenti nell’accademia italiana, con buoni risultati e - lo dico sommessamente e con un po’ di pudore - anche con un buon apprezzamento da parte degli studenti. Analoga esperienza di “trasferimento di buone pratiche” mi è stato confermato da tutti i colleghi che insegnano sia a IES Abroad, sia anche in università Italiane (Bocconi, Cattolica, Politecnico). Consiglio, a questo proposito, la lettura del saggio del Prof. Sante Maletta, che insegna Filosofia politica all'Università di Bergamo, ma anche a IES Abroad, sull'esportabilità nelle istituzioni accademiche italiane dell'esperienza didattica appresa insegnando a studenti statunitensi. ("Warm is better. Anche nell'Università Italiana?" in Capovilla M. et al. (a cura di) citato in bibliografia).

L’auspicio è che i docenti delle università italiane comprendano e facciano propria l’importanza della valutazione e soprattutto dell’esigenza di un miglioramento della qualità della didattica, attraverso un rinnovamento del loro modo di fare lezione e una nuova concezione dell’impianto didattico, centrato sull’apprendimento e non sull’insegnamento. Se così non fosse, avrebbero passivamente partecipato a un sostanziale appesantimento della burocrazia senza che questo porti alcun miglioramento complessivo.

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