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Il record di firme per l’Accordo di Parigi

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Oltre 154 Paesi hanno annunciato l’intenzione di sottoscrivere l’Accordo di Parigi già il primo giorno in cui questo sarà legalmente possibile, il 22 aprile 2016. Con la firma dei Capi di Stato o di Governo, i rispettivi Paesi si vincolano a non mettere in atto azioni che contrastino con l’Accordo e ad iniziare o proseguire le procedure interne necessarie alla sua ratifica.

Si tratta di un numero record di Paesi (qui l’elenco), sia rispetto al Protocollo di Kyoto che rispetto ad altri trattati internazionali sulle più diverse tematiche (diritti umani fondamentali, diritti di donne e bambini, non-proliferazione nucleare, ecc.).

Il Protocollo di Kyoto, il principale strumento internazionale per la riduzione delle emissioni in vigore fino ad oggi, era stato firmato il 16 marzo 1998 – primo giorno di apertura alla firma – soltanto da 6 Paesi. Nell’intero primo anno aveva ottenuto 84 firmeCi erano poi voluti sette anni prima che entrasse in vigore.

Il precedente record fra i trattati ONU era quello della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che definisce i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani. Venne firmato a Montego Bay nel 1982 da 119 paesi, a valle di negoziati iniziati nel 1973 ed entrò in vigore dodici anni dopo. Tempi comunque molto lunghi.

Non è facile prevedere quando l’Accordo di Parigi, il cui testo è stato approvato lo scorso dicembre, sarà ratificato da un numero di paesi tali de determinare la sua entrata in vigore (almeno 55, che rappresentino più del 55% delle emissioni). Secondo il segretario esecutivo dell’UNFCCC, Christiana Figueres, ciò potrebbe verificarsi nel 2018; secondo altri potrebbe essere già quest’anno, come già a gennaio si intravedeva in una lettura attenta del testo dell’Accordo.

Ogni Paese disciplina nel suo ordinamento giuridico come avviene la ratifica degli accordi internazionali. Per alcuni Paesi, come l’Italia, la ratifica deve passare per un voto del Parlamento; per altri, come l’Australia, è sufficiente che il governo notifichi il trattato al Parlamento. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’amministrazione Obama sostiene che il testo può essere ratificato con un ordine esecutivo presidenziale, come attuazione della Convenzione UNFCCC del 1992 (ratificata dal Senato), in quanto il testo rispetta i criteri formulati dal Senato quando rigettò la ratifica del Protocollo di Kyoto (in particolare la richiesta che anche Cina ed India assumessero obblighi). L’opposizione repubblicana, che ha la maggioranza al Senato ma non la super-maggioranza necessaria per forzare un voto del Senato su questo tema, contesta questa interpretazione e presumibilmente farà ricorso alla Corte Suprema. Quest’ultima a sua volta è bloccata sulla nomina del nono membro proprio dall’ostruzionismo repubblicano, che punta a fare delle prossime elezioni un elemento dirimente sia della stessa che della politica climatica statunitense.

Cina e Stati Uniti si sono impegnati, con un comunicato congiunto, a ratificare l’Accordo di Parigi quest’anno, seguiti da Canada, India, Messico e Sud Africa.

Il 22 aprile, 8 Stati piccoli ed estremamente vulnerabili ai cambiamenti climatici depositeranno già gli strumenti di ratifica (il Belize ed i paesi insulari di Barbados, Fiji, Maldive, Nauru, Santa Lucia, Samoa, Tuvalu). Su scala globale, le loro emissioni sono quantitativamente poco rilevanti ma, essendo inconsueto che la ratifica avvenga il primo giorno, contribuiscono al “clima” complessivo di mobilitazione record. Ad esempio nessuno ratificò il primo giorno né il Protocollo di Kyoto né la Convenzione UNFCCC (che attrasse solo 11 firme il primo giorno di apertura).

La prima conseguenza di un raggiungimento nel 2016 o 2017 delle quote di emissioni e di paesi necessari a far scattare l’entrata in vigore è la possibilità che l’Unione Europea, che deve aspettare che tutti i suoi 28 membri ratifichino per poterlo fare a sua volta, rimanga fuori dalla prima, importante Conferenza delle Parti dell’Accordo di Parigi. In essa verranno prese decisioni su dettagli cruciali dell’Accordo, come il sistema di verifica degli impegni nazionali e sulla trasparenza delle azioni e del supporto.

Seconda conseguenza di una celere entrata in vigore potrebbe essere l’accelerazione del percorso di aggiornamento dei contributi nazionali volontari (INDC) presentati lo scorso anno dai Paesi contenenti gli impegni di riduzione o contenimento delle emissioni; come già detto, questi INDC sono l’elemento cardine dell’Accordo di Parigi, e nel 2018 è previsto l’avvio di un dialogo facilitativo tra le Parti con l’obiettivo di presentare nuovi e più ambiziosi impegni, possibilmente entro il 2020.

Proprio in questo sta la difficoltà europea: al difficile negoziato sulla ripartizione nazionale dell’obiettivo aggregato di ridurre del 40% le emissioni si sovrappone la necessità, insita nell’Accordo e dovuta all’ampio “emission gap” (distanza tra gli obiettivi indicati dalla scienza per mantenere l’aumento medio delle temperature globali “ben al di sotto dei 2°C” e la somma degli impegni presentati dai Paesi), di aumentare ulteriormente il target al 2030 e di fissare un obiettivo intermedio al 2025.

In ogni caso, al di là delle difficoltà che ciò implicherebbe in termini burocratici (specialmente per coloro che pensavano di avere quattro anni, fino al 2020, per cesellare i dettagli da sottoporre alla prima sessione plenaria delle Parti che ratificano l’Accordo di Parigi) e delle suddette complicazioni per l’Europa, una rapida entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sarebbe la migliore delle notizie.

Pubblicato su www.climalteranti.it il 21/04/2016.


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