Nel
Paese più liberale del mondo e più rispettoso della libertà individuale, gli
Stati Uniti, stiamo assistendo a un irrigidimento delle regole relative alla
obbligatorietà dei vaccini.
In Stati che sono agli estremi come benessere e
atteggiamenti sociali (California e Mississipi) si è reintrodotto l’obbligo di
vaccinazione per l’ammissione alle scuole: non sono più possibili eccezioni
basate su credenze personali e non
fondate su certificati problemi medici (New England Journal of Medicine, 14
Agosto 2015).
Determinante
per questa drastica decisione è stata la testimonianza di un bambino di 7 anni,
oltre che la “Disneyland epidemics”, una epidemia di morbillo partita da
Disneyland. Rhett Krawitt è un bimbo di 7 anni guarito da leucemia. Il suo
sistema immunitario è fortemente compromesso. Vuole e ha diritto di andare a
scuola ma non può farlo.
La presenza di bambini non vaccinati lo mette a
rischio di contrarre malattie come il morbillo o la varicella che per lui
potrebbero essere mortali. In circa un
quarto delle scuole in California si è
persa l’ “immunità del gregge” (herd immunity), un meccanismo per cui chi si
vaccina, impedendo la circolazione di agenti infettivi come il virus del
morbillo, protegge anche chi non è vaccinato. Vi è insomma una dimensione di
responsabilità e solidarietà sociale ineludibile nel mondo delle vaccinazioni.
In un momento di dibattito sul tema vaccini nel nostro Paese la vicenda di
Rhett Krawitt ci deve far riflettere sugli strumenti e strategie di comunicazione. Una riflessione
urgente su comunicazione e politiche vaccinali in un momento in cui
l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha alzato un “cartellino giallo” al
nostro Paese a causa del calo di copertura vaccinale.
Il
fatto che le vaccinazioni con tassi più bassi siano quelle accusate falsamente
di causare l’autismo nei bambini significa che anche in Italia ha influito una
propaganda irresponsabile contro il vaccino trivalente.
I vaccini sono indiscutibilmente utili. L’Organizzazione
Mondiale della Sanità stima che nel decennio che stiamo vivendo i vaccini
salvino 2.5 milioni di vite all’anno, che corrispondono a 5 vite salvate al
minuto. Ancora non può non angosciare il pensare che dei 10
milioni di bambini che muoiono ogni anno 2.5 milioni sarebbero salvabili se
avessero accesso ai vaccini più elementari. E ancor meglio oggi, soprattutto
grazie alle biotecnologie, i vaccini sono i più formidabili e potenzialmente
inesauribili strumenti profilattici di cui dispone la medicina. Ma allora, come
mai sempre più genitori non li vogliono somministrare ai loro cuccioli,
esponendoli al rischio evitabile di gravi infezioni (vedi le cronache su morti
da pertosse o difterite nel 21° secolo) e creando un rischio collettivo per
migliaia di cittadini?
Intanto
andrebbe molto chiaramente detto che coloro i quali sono contrari alle
vaccinazioni in modo radicale sono una minoranza nella società. Si stima che
nei paesi occidentali queste persone sono oscillino tra l’1 e il 2%. Dall’altra
parte c’è ben l’80% che è favorevole e pratica le vaccinazione. Il problema è
il 20% circa di indecisi, che è drammaticamente in aumento come conseguenza di
diverse incomprensioni. Vediamo un po’
da vicino.
Non
sono tanto queste false opinioni a giocare il peso principale nella crescita
degli atteggiamenti antivaccinazioni, anche se la propaganda contro i vaccini
antinfluenzali utilizza molto questo fuorviante argomento. Nella diffidenza
verso i vaccini entrano in gioco soprattutto elementi psicologici. In primo
luogo la naturale avversione umana al rischio, nonché la tendenza altrettanto
naturale delle persone a lasciarsi guidare nelle decisioni dai sospetti più che
dalle prove, e a non fidarsi di chi non sia prossimo per amicizia e parentela,
o interessato al loro benessere. Quando si tratta di bambini che nascono da
genitori avanti nell’età e che probabilmente resteranno unici, pesa nella
scelta di somministrare un trattamento il fatto di leggere in giro o che più di
un conoscente o persino il medico dica che può avere effetti collaterali. E’
facile immaginarsi come possono sentirsi questi genitori se i minacciati
effetti si dice che sono neurologici e includono l’autismo.
Come
si deve comunicare con questi genitori indecisi, che spesso sono persone con
strumenti culturali raffinati? E in generale quali sono le strategie migliori
per fare campagna a supporto delle vaccinazioni in modo da ottenere gli effetti
desiderati, soprattutto per portare gli indecisi dalla parte giusta? Oggi la
comunicazione di temi controversi è un problema ben studiato sperimentalmente,
e in particolare la vaccinazione è stata oggetto di alcune esperimenti che
hanno prodotto risultati interessanti.
Alcuni
mesi or sono Pediatrics, la più
autorevole rivista mondiale di pediatria, ha pubblicato uno studio ideato dallo
scienziato cognitivo Brendan Nyhan, che dimostra l’inadeguatezza della
comunicazione pubblica sui vaccini se questa è orientata a correggere le
percezioni distorte. Lo studio ha arruolato 1759 genitori statunitensi
coinvolgendoli in un esperimento in cui essi erano casualmente suddivisi in
quattro gruppi, ognuno oggetto di specifiche e differenti forme di
comunicazione volte a far capire l’utilità della vaccinazione MMR (quella
falsamente correlata all’autismo), o a un gruppo di controllo. Il risultato è
stato che nessuno degli interventi di comunicazione rivolti ai genitori che non
intendevano vaccinare i figlio li ha smossi dalla loro posizione. Tra l’altro,
quando i genitori che avevano l’atteggiamento meno favorevole verso il vaccino
capivano la falsità delle tesi che associano la vaccinazione MMR all’autismo,
essi cambiavano le loro false credenze, ma riducevano anche ulteriormente
l’intenzione di vaccinare i figli. Inoltre, l’uso di immagini o racconti che
mettevano in evidenza i rischi di non vaccinare, inducevano nei genitori un
aumento della credenza in un legame tra vaccino e autismo, o un’aumentata
percezione dei rischi di effetti collaterali dovuti alla vaccinazione. Anche se
l’esperimento può essere criticato, perché i partecipanti in qualche modo
sapevano di esser parte di una situazione costruita, in realtà risultati
analoghi sono stati ottenuti per altre vie. E confermano una scoperta costante
sulle figure e i contesti che portano le persone a fidarsi delle informazioni
sanitarie dissonanti rispetto a quello in cui credono. Nel senso che sono le
persone delle quali i genitori hanno più fiducia e dalle quali accolgono le
informazioni sono quelle familiarmente o socialmente più vicine o i medici che
hanno in cura i malati, in questo caso i bambini.
Un
articolo pubblicato due mesi fa su PNAS
da un gruppo di psicologi ha confermato in parte i risultati dello studio su
Paediatrics, ovvero che agire per correggere le disinformazioni è inefficace se
lo scopo è contrastare gli atteggiamenti antivaccinazione. Nel senso che il
gruppo di partecipanti allo studio sui quali si è intervenuti per correggere le
false credenze sul rapporto tra vaccini e autismo, non hanno cambiato
atteggiamento verso le vaccinazioni. Ma se alle persone si mostrano immagini di
bambini con morbillo, rosolia o pertosse, cioè se si mette l’enfasi sui rischio
associati alla malattia il risultato è stato un cambiamento significativo
dell’atteggiamento. Per cui gli autori concludono che appunto si dovrebbe
comunicare ai genitori non tanto che i vaccini non sono rischiosi, ma che se
non si vaccinano i figli li si espongono a rischi di gravi sofferenze o morte.
Ad un auspicabile e ineludibile ritorno alla implementazione
della obbligatorietà delle vaccinazioni va affiancato un impegno di
comunicazione e di condivisione culturale che deve tener conto dei dati di
ricerca sopra menzionati. Lo dobbiamo ai bambini del nostro Paese e del mondo e
alle fasce più fragili della popolazione: sono circa 1500 nel nostro Paese ogni
anno i bambini malati di cancro, come il piccolo Rhett Krawitt.
Articolo pubblicato il 23 ottobre 2015 su Il Sole 24 Ore