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Inventore dell'intelligenza artificiale

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Il test di Turing

Dopo la guerra la matematica computazionale e la nascente informatica avevano fatto passi da gigante. Continuando a lavorare settore di sui era stato pioniere, Turing fu il primo a porsi domande riguardanti il futuro di questa disciplina. Il suo interesse si spostò dalle proprietà di calcolo di una macchina (la macchina di Turing) ai processi logici che la macchina poteva sviluppare. Non si trattava più di programmare macchine efficienti ma macchine intelligenti. Nel 1950 fu pubblicato sulla rivista Mind il primo esempio di Test di Turing, il test messo a punto dal matematico per mettere alla prova l'abilità delle macchine a replicare la logica umana. 

Valentina Rossi ha intervistato Giuseppe Longo, Professore Emerito di Teoria dell'informazione all'Università di Trieste, che spiega il funzionamento del Test di Turing. 

Intelligenza artificiale e mente umana

L'interessante analogia tra cervello umano e calcolatore viene chiarita da Leonardo Fogassi, docente di Fisiologia e Neuroscienze all'Università di Parma, intervistato da Rita Giuffredi.

 

Ciò che invece Turing portò a galla attraverso il suo test è l'analogia tra i processi che il cervello può creare (quella mente che viene definita mente pensante) e i processi che la macchina può eseguire. Questo permise non solo un enorme sviluppo dell'intelligenza artificiale ma anche una miglior comprensione della mente umana. Ce ne parla Simone Gozzano, docente di Filosofia all'Università de L'Aquila, intervistato da Valerio Congeduti.

 

Gabriele Lolli, professore di Filosofia della Matematica alla Scuola Normale di Pisa ha, invece, raccontato a Vincenzo Belluomo l'originalità e l'importanza del lavoro di Turing, tracciando una linea che parte dalle prime intuizioni dello scienziato inglese fino ad arrivare alle applicazioni dell'informatica e logica moderna.

 

Marco Guglielmino e Vincenzo Belluomo propongono una panoramica sugli sviluppi dell'intelligenza artificiale, dai progetti internazionali come lo Human Brain Project ai simulatori online della macchina di Turing come Cleverbot, di cui di seguito è proposta una versione audio dove l'essere umano è interpretato dalla voce maschile e il computer da Helen Verardo.

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Artificiale, troppo artificiale

di Marco Guglielmino

Secondo Freud già tre volte la scienza ha impartito sonore lezioni all’egocentrismo umano. Copernico avrebbe scalzato l’Uomo dal centro del palcoscenico dell’Universo confinandolo su un sasso abbandonato a vorticose orbite. Darwin gli avrebbe sottratto il ruolo di protagonista principale della Storia facendone un semplice primate comprimario. Infine lo stesso Freud avrebbe inferto l’ultimo colpo alla scimmia narcisista trasformandola, da autonomo attore, in un pupazzo governato dall’Inconscio. Che ci rimane? L’essere l’unica specie nota dotata di ciò che chiamiamo intelligenza, carattere di sfuggente definizione che sbandieriamo come nostra inviolata prerogativa. Ma se scoprissimo che anche le macchine possono pensare, il quarto traumatico risveglio sarebbe dietro l’angolo.

L’ambizione di creare un dispositivo che si comporti come un essere senziente ha radici piuttosto lontane. Già nel ‘700 inventori e orologiai fecero a gara per costruire automi che lasciavano a bocca aperta i contemporanei e che stupirebbero ancora oggi: l’anatra artificiale di Jacques de Vaucason, per esempio, era capace addirittura di bere acqua e mangiare semi di grano col becco. Tuttavia, è con l’avvento dei calcolatori elettromeccanici prima, ed elettronici poi, che la possibilità di riprodurre capacità cognitive sembra a portata di mano. Le potenzialità di queste nuove macchine appaiono subito molto promettenti e le più fervide immaginazioni si mettono presto a correre. Al punto che già nel 1950, quando ancora un computer meno potente di un qualunque smartphone occupava intere stanze, la genialità di Alan Turing partorisce il primo test atto a stabilire se una macchina può pensare. Si tratta di una prova di imitazione, in cui il calcolatore comunica attraverso una telescrivente con un “giudice” umano e deve convincerlo che sta in realtà “chattando” con una persona in carne ed ossa. Qualora ci riuscisse come potremmo negare che la macchina sta pensando? La proposta di Turing scoperchia un vaso di Pandora e la discussione sul tema diventa in pochi anni ampia e profonda. Tanto che nel 1956 l’informatico John McCarthy in occasione di una storica conferenza al Dartmouth College battezza la nuova disciplina con l’evocativo nome di “Intelligenza Artificiale”.

Da quel momento diverse strategie vengono chiamate in campo per consentire ai programmi di districarsi in compiti  via via più complessi. Un esempio è l’utilizzo di reti neurali: strutture complesse ispirate al nostro sistema nervoso, dove piccoli elementi si occupano ciascuno del suo pezzo di informazione da gestire. Dalla cooperazione di queste parti scaturisce la decisione e ogni errore riplasma la rete di relazioni tra gli elementi. Insomma una versione sintetica dell’apprendimento. Spuntano allora come funghi programmi e linguaggi capaci di svolgere compiti che fino a quel punto si pensava fossero stretto appannaggio di intelligenze umane. Programmi che giocano a dama, a scacchi (mettendo in seria difficoltà anche grandi campioni umani) o che dimostrano teoremi in modo completamente automatico. Addirittura “sistemi esperti” capaci di prodursi in prospezioni geologiche, diagnosi mediche o analisi finanziarie. Il cammino intrapreso nel ‘700 non si è mai fermato. Oggi, come allora, abbiamo costruito macchine straordinarie che ci stupiscono con le loro abilità “intelligenti”. Picasa riconosce i volti dei nostri amici e etichetta di conseguenza i nostri album fotografici. Siri sembra in grado di soddisfare ogni desiderio un proprietario di iPhone possa esprimere. Se chiediamo a Wolfram Alpha informazioni su 88 miglia all’ora, scopriamo che si tratta della velocità a cui Marty McFly deve guidare una Delorean DMC-12 per viaggiare nel tempo. Al momento tuttavia, se a preoccuparci è la nostra unicità di soggetti pensanti, possiamo ancora dormire sogni tranquilli. Culliamoci serenamente nella consolante illusione che tale unicità non ci verrà mai strappata, il mattino è ancora piuttosto lontano.

Human Brain Project, Turing e intelligenza artificiale

di Vincenzo Belluomo

“Costruire una macchina che riprodurrà integralmente un cervello umano, emozioni comprese”. Questa non è una frase presa da un film di fantascienza, o almeno non più. Sono le parole di Henry Markram, neuroscienziato e direttore dello Human Brain Project: l’idea è quella di sviluppare un super computer che si propone di  costruire, tramite  algoritmi, un modello dei  circa 100 miliardi di neuroni che compongono il cervello umano. Lo scopo è provare a mapparne tutte le funzioni delle quali ancora si conosce ben poco e che potrebbero fornire nuove intuizioni nella lotta contro le malattie neurodegenerative. “Quello che non conosciamo ancora sono i meccanismi su cui si basano le patologie cerebrali. Contiamo di arrivarci tramite l’utilizzo dei modelli, lavorando così su nuovi farmaci e cure per malattie come l’Alzheimer, il Parkinson o le epilessie” dice Markram.

Lo Human Brain Project si presenta come una delle più grandi sfide che uniscono tecnologia e neuroscienze. E anche una delle più sovvenzionate. Il progetto, infatti, è stato finanziato dalla Comunità Europea con oltre 1 miliardo di euro da utilizzare entro il 2023, termine fissato dallo stesso Markram per il suo completamento. E tra le undici università e istituzioni scientifiche europee che partecipano al progetto non manca un po’ di Italia: sei ricercatori con i rispettivi enti di appartenenza mettono a disposizione le proprie competenze e risorse scientifiche. Il loro lavoro in questa prima fase è finalizzato al reperimento di fondi pubblici per cofinanziare l’iniziativa, clausola necessaria per partecipazione al progetto.

Gabriele Lolli è professore di filosofia della scienza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 1994 ha curato l’introduzione di un libro edito da Bollati Boringhieri che raccoglieva gli scritti relativi all’Intelligenza meccanica di Alan Turing.

Esiste un legame tra un progetto come lo Human Brain Project e gli studi di Turing?

Il nome di Turing è associato, nella filosofia della mente, alla tesi del “funzionalismo”: secondo questa tesi la macchina universale di Turing potrebbe essere un modello della mente. Se quindi si riuscisse a scrivere un programma in grado di svolgere una determinata funzione dimostrando un grado di competenza paragonabile a quello del cervello, saremmo in grado di spiegare questa competenza nella mente umana. Per Turing era esattamente il contrario.

Può spiegarci meglio in che senso?

Turing sosteneva che per capire come e perché il cervello fa certe cose bisognasse studiare la struttura del cervello. Studiati i vincoli posti dalla crescita di quest’ultimo alla formazione dei circuiti neuronali, si sarebbe potuto scrivere un programma che simulasse i meccanismi cerebrali.

Gli studi di Turing seguivano questa direzione?

Turing stesso studiò embriologia e si interessò alla crescita e alle connessioni neuronali, e dichiarò tra le sue volontà quella di “costruire” un cervello. La sua posizione particolare era appunto quella di studiare il funzionamento del cervello a partire dalla “scienza dura”: prima usare la fisica, la chimica e la biologia per capire come lavora il cervello, e poi ricavare delle informazioni su come imitarlo. Non partire dal modello astratto della macchina, che pure aveva costruito egli stesso ed era servito.

Quali sono le frontiere future dell’intelligenza artificiale?

Per quanto riguarda le frontiere dell’intelligenza artificiale, a mio avviso, il futuro prossimo sarà quello delle protesi artificiali inserite in simbiosi nel cervello organico. Una interazione funzionale tra ciò che è meccanico e ciò che è organico. Qualche avvisaglia c’è già ma non sono un esperto in materia. Turing ce lo saprebbe dire. Da questo punto di vista la sua scomparsa così prematura è una tragedia epocale per l’umanità intera.

Per approfondimenti: La conferenza TEDx di Henry Markram  
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