
Gli scenari climatici sono molto migliorati rispetto a quando è stato siglato l’Accordo di Parigi. È importante riconoscerlo e darsi anche qualche pacca sulla spalla, se questo serve per darci la forza e pretendere che governi, mercati e società accrescano i loro impegni climatici. È ancora possibile stare sotto 1,5°C, ma, se non dovessimo riuscire, «ogni decimo di grado conta» per risparmiare danni a ecosistemi e benessere umano.
Immagine: Linh Do, UNEP
Dieci anni fa era il 2015 e, a quel tempo, il 2015 era stato l’anno più caldo fino ad allora registrato. Dieci anno dopo, l’anno più caldo è per ora il 2024, con un’anomalia termica di oltre 1,5°C, cioè oltre l’obiettivo più ambizioso e più vitale dell’Accordo di Parigi. Le emissioni sono continuate a crescere, più lentamente, e la temperatura è continuata a salire, con i suoi alti e bassi tipici di un sistema complesso come l’atmosfera terrestre. Però, sono cresciute anche altre cose in questi dieci anni trascorsi dalla firma dell’accordo climatico più importante del pianeta.
È aumentata infatti la tecnologia disponibile per fare la transizione; è aumentata la competitività delle energie rinnovabili e di molti supporti che prima costavano ancora troppo; è aumentata la consapevolezza climatica a livello locale e internazionale (anche in questo caso forse con degli alti e dei bassi). Ora, il punto è che il nuovo Emission Gap Report dell’UNEP non può che cogliere questi cambiamenti.
Infatti, oggi, le proiezioni di riscaldamento globale medio per fine secolo sono di 2,3-2,5°C se tutte le politiche climatiche scritte negli obiettivi ufficiali dei paesi (gli NDC) fossero rispettate. Continuando invece con le politiche correnti si arriverebbe a 2,8°C.

L’immagine qua sopra mostra molto bene gli scenari in gioco. Ma il dato che vorremmo sottolineare è che in dieci anni di tempo – in soli dieci anni di tempo – le proiezioni hanno guadagnato circa un grado centigrado, quando nel 2015, dice l’UNEP, erano sui 3/3,5°C. Il miglioramento c'è stato anche solo con lo scorso anno, dove i numeri erano 2,5-2,8°C (con NDC) e 3,1°C (politiche correnti). Questo è avvenuto nonostante dal 2022 la Russia abbia invaso l’Ucraina, e nonostante dal 2023 Israele stia sterminando la popolazione palestinese – oltre ai tantissimi altri conflitti in corso che destabilizzano il mondo senza sosta. Le proiezioni climatiche, quindi, sono migliorate nonostante l’attenzione mediatica e politica – e quindi anche quella economica – abbiano drenato molte risorse dai temi ambientali per destinarle a quelli bellici.
Certo, non è ancora abbastanza. L’obiettivo è ancora restare sotto 1,5°C: l’anno scorso li abbiamo superati, ma ancora non in modo strutturale e definitivo. Va impiegata qualsiasi risorsa per riuscirci, per tagliare le emissioni del 55% rispetto alle emissioni del 2019 entro dieci anni. È complicato ma è possibile e i paesi non possono accontentarsi di fare giusto qualcosa. Perché il ritiro dagli Accordi di Parigi di Trump ci farà già perdere un decimo di grado (0,1°C).
Le emissioni stanno ancora crescendo, nel 2025 potrebbero crescere ancora dell’1,1% secondo il Global Carbon Project. Quando dovrebbero diminuire del 25% nel 2030 rispetto al 2019 per stare sotto i 2°C e del 40% per stare in 1,5°C. Invece con gli NDC attuali scenderebbero tra il 12% e il 15%. I toni del rapporto UNEP e di altri sono obiettivamente piuttosto drammatici: l’obiettivo del grado e mezzo è in serio pericolo. Potremmo superarlo temporaneamente e poi tornare indietro, ma è molto difficile. Ma non è che se non riusciamo a stare sotto 1,5°C allora tutto è perduto: ogni decimo di grado conta. Every tenth of degree matters (lo ribadisce ora l’UNEP e lo dice da sempre l’IPCC). Ogni possibile tonnellata di CO2 in meno reduce la probabilità di andare incontro a punti di non ritorno climatici, come il collasso della calotta glaciale dell’Antartide occidentale, tra i tanti. E ogni decimo di grado guadagnato serve per evitare un eccessivo ricorso a tecniche incerte come il sequestro di anidride carbonica dall’atmosfera. Soluzioni che però non potranno essere snobbate più di tanto. Certo, il fulcro centrale restano e saranno le rinnovabili, punto e basta, tutta la comunità scientifica internazionale è d’accordo. Ma è la stessa IPCC a dire che serviranno anche tutte quelle tecnologie - che potremmo chiamare “cuscinetto” - per aiutarci. Un po’ di cattura di CO2, un po’ di biocarburanti, un po’ di nucleare.
Lo stesso rapporto UNEP riconosce che la «comunità internazionale è meglio posizionata per accelerare l'azione climatica», per guidare creazione di posti di lavoro e garantire sicurezza energetica. Le tecnologie (come già dicevamo qui) sono più che disponibili. «Lo sviluppo dell'energia eolica e solare continua a superare le aspettative, abbassando i costi di implementazione e guidando l'espansione del mercato», scrive il rapporto. Ormai è proprio il caso di dire che sono i mercati stessi a chiedere che la transizione energetica faccia il suo seguito. Arrivati a questo punto non possiamo più tirarci indietro, grazie al fatto che, dai negoziati climatici internazionali in giù, i governi sono riusciti a imprimere una direzione chiara ai mercati. La transizione è iniziata e ormai siamo intrappolati: tocca proprio finirla. Alla faccia di chi sventolava lo spettro di una “mano invisibile” per frenare gli investimenti sostenibili perché distruggono le nostre industrie. E bisogna continuare così: serve aumentare ancora la mole di investimenti, portando più supporto finanziario ai paesi in via di sviluppo. Anche perché più si rallenta più è difficile recuperare. Le emissioni cumulative, infatti, sono arrivate a 423,9 parti per milione nel 2024 (purtroppo la CO2 ha una vita media molto lunga, altrimenti non staremmo qua a scrivere di clima da decenni).
L'Europa nel frattempo conferma i propri obiettivi climatici nel suo NDC aggiornato, con una riduzione delle emissioni nette di gas serra tra il 66,25% e il 72,50% rispetto al 1990 entro il 2035, nonostante sia «cresciuto in diversi Stati il consenso verso le forze politiche negazioniste o quantomeno ostili al tema della lotta al cambiamento climatico», come spiega il sito Climalteranti.it. Ovviamente restano aperti ancora molti nodi, dalle risorse per l'adattamento, alla Giusta Transizione, al fondo Perdite e Danni, ma l'aria che si respira alla COP30 in corso a Belém in questi giorni sembra suggerire che i giochi siano ancora aperti e che l'ambizione climatica possa riaffermarsi (come documentato tra gli altri da Italian Climate Network).

L’immagine qui sopra mostra in particolare come si stanno comportando i paesi del G20. È importante saperlo, perché le economie di questa manciata di paesi sono responsabili del 77% di emissioni globali, quindi il grosso devono farlo loro. E le loro emissioni sono aumentate 0,7% nel 2024. Meglio degli altri, ma comunque sono aumentate. Solo sette membri del G20 hanno presentato nuovi NDC con nuovi obiettivi climatici per il 2035; tre li hanno annunciati. «Il G20 non è collettivamente sulla buona strada per raggiungere nemmeno i propri obiettivi NDC per il 2030. Dovranno urgentemente e velocemente aumentare l'azione per ridurre drasticamente le emissioni». Ecco, tornano i toni perentori dell’UNEP. Che ovviamente ha ragione, anche perché è un po’ immorale che chi ha emesso più gas serra di tutti finora adesso si arroga il diritto di prendersela comoda.
E però, ripensando a dieci anni fa, quando la crisi climatica non era nelle agende politiche come oggi, non possiamo che riconoscere il fatto che, come umanità, siamo riusciti a migliorare parecchio. E questo è importante per pretendere collettivamente una nuova spinta, più veloce e più decisa. Perché, se non dovessimo rimanere sotto 1,5°C (dobbiamo comunque mettercela tutta), c’è sempre 1,6°C, 1,8°C. Ogni decimo di grado conta e il pessimismo non serve a niente, soprattutto se proviene da chi si occupa di comunicazione climatica.
