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Bambini in carcere: l’arte ci interroga, ma la politica guarda altrove

disegno con singolo tratto di neonato su sfondo acquarello

Il cortile d’onore di Montecitorio ospita da qualche settimana una scultura che rappresenta un bimbo in posizione fetale, a rappresentare la fragilità e l’abbandono, ma anche la promessa nel futuro se sapremo proteggere i bambini e le bambine. Non è quello che sta succedendo oggi, certamente nel mondo, e in Italia quando il decreto sicurezza porta in carcere le donne incinte o le madri con i figli

Tempo di lettura: 4 mins

L’arte ha il potere di richiamare emozioni, è spesso collegata alla realtà ed è un potente mezzo di scoperta, di conoscenza e talvolta di denuncia. 
Nel cortile d’onore di palazzo Montecitorio da alcuni giorni è stata installata stabilmente l’opera dell’artista italiano Jago. La scultura, che si intitola Look Down, rappresenta un bambino rannicchiato su se stesso, in posizione fetale. Come scrive l’autore stesso: «Nasce da uno sguardo rivolto verso il basso, non per vergogna, ma per consapevolezza. È un invito a dirigere l’attenzione su ciò che troppo spesso ignoriamo: la povertà, l’abbandono, la fragilità che abita le nostre città e il nostro tempo. In questa opera si vuole raffigurare l’innocenza ferita di milioni di bambini, ma anche la promessa di un futuro che dipende da come sapremo proteggerli oggi». 

Quindi, un’opera simbolo di povertà, discriminazione, indifferenza.

La stessa indifferenza della politica che con il decreto sicurezza, approvato dal Parlamento poche settimane fa, mette in carcere bambini innocenti con le madri detenute. Su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui. Detenute come Claudia, 24 anni, all'ottavo mese di gravidanza, rinchiusa nel carcere di Lauro per madri con figli, come ci informa il garante delle persone private della libertà per la regione Campania Samuele Ciambriello. E Claudia è in carcere per un furto! 

Indifferenza o ipocrisia?

«L'arte, nelle sue forme più diverse, non solo riflette la società, ma la interpella, la stimola, la accompagna nei suoi passaggi storici più complessi», ha commentato il presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana, durante la cerimonia d’inaugurazione dell’opera di Jago. Allora, ci sembra giusto interpellarci e interpellare la politica: è giusto che un bambino viva, ancor prima di nascere, la brutalità del carcere? È giusto che una donna viva in totale solitudine la felicità e le paure dell'attesa di una nuova vita? Non poteva avere gli arresti domiciliari? O stare in case famiglie per detenute madri? Può mai una donna in gravidanza che non ha commesso reati di particolare gravità affrontare una vita in carcere? 

Nel suo ultimo rapporto, dal titolo signficativo di Senza respiro, l’associazione Antigone dà conto di eventi dolorosi accaduti proprio nel corso della gestazione a donne recluse. Per esempio, a Rebibbia, a causa di quello che è stato poi definito un parto precipitoso, una donna ha visto come unica figura “professionale” ad assisterla esclusivamente la sua compagna di cella. Ancora: a San Vittore una donna ha perso il proprio bimbo dopo aver accusato sintomi che forse avrebbero meritato una consulenza specialistica per essere decodificati adeguatamente.

Che fine fa il supremo interesse del minore?

Il nostro Servizio Sanitario Nazionale, con il suo approccio universalistico, garantisce e tutela la salute fisica e mentale della madre e del feto o del neonato durante la gravidanza e il parto. A ogni donna in gravidanza devono essere garantiti gli interventi appropriati di un percorso assistenziale prenatale di base che possa assicurare una gravidanza normale e intercettare ogni minima alterazione in tempo per offrire la migliore assistenza alla mamma e al  bambino o la bambina. Tutto ciò non è detto che lo si possa garantire a una donna gravida rinchiusa in un carcere. Senza fare sconti di pena a nessuno, si rispetti il supremo interesse del minore, così come prevede l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che l’Italia ha firmato.

Nel lontano luglio 1929, Carmela, una giovane donna incinta, all’ottavo mese di gravidanza (proprio come Claudia) commette un ulteriore furto, viene arrestata  e condannata, ma la sua condizione di mamma in attesa obbliga il giudice a non mandarla in carcere ma a farle scontare la pena agli arresti domiciliari. 
Nel lontano 1929, infatti, il legislatore penale aveva rivolto attenzione al rapporto tra la madre detenuta e la prole, attraverso il possibile differimento dell’esecuzione della pena per la donna incinta e la madre di prole in tenera età.

A luglio 2025 Claudia commette lo stesso reato, ma il giudice non ha più l’obbligo del differimento della pena e Claudia con la sua creatura in utero viene rinchiusa in carcere.
Oggi, con il decreto sicurezza: il reato è sempre lo stesso, la gravidanza è sempre la stessa, è il legislatore che è cambiato e purtroppo non in meglio. 

E allora accanto all’opera di Jago a Montecitorio occorre mettere le sbarre.
 


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