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Gli ippopotami di Escobar: il dilemma tra etica ambientale ed etica animale delle specie invasive

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Immagine di un ippopotamo a bocca spalancata in acqua

Pablo Escobar, noto boss del narcotraffico, ha lasciato in eredità non solo un impero criminale, ma anche un grosso problema ambientale. Dopo la sua morte, gli ippopotami che aveva importato per il suo zoo privato sono stati abbandonati e la loro popolazione è cresciuta esponenzialmente, causando gravi danni all'ecosistema colombiano. Nonostante i tentativi di sterilizzazione, la soluzione più praticabile sembra essere l'eutanasia, una misura che solleva significativi dilemmi etici tra il dovere di preservare l'ambiente e quello di proteggere gli animali.

Crediti immagine: modificato da Alvaro Morales Ríos/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 4.0 DEED

La figura di Pablo Escobar è ben nota ed è stata resa ulteriormente celebre da film e serie televisive. Meno nota è una parte dell’eredità che il grande boss del traffico mondiale di cocaina ha lasciato e che, a distanza di quasi vent’anni dalla sua morte, pone un problema etico tra la tutela dell’ambiente e quella degli animali. Un problema – quello delle specie aliene invasive – del quale abbiamo molti esempi anche in Italia (non ne è esente nemmeno il nostro mare), ma che ha una storia molto particolare e che è stata affrontata solo di recente.

Escobar si era costruito, nel distretto di Antioquia, in Colombia, quella che era di fatto una via di mezzo tra un’enorme villa, un bunker e una cittadella fortificata, dotata di aeroporto privato, hangar, fiumi, laghi, cascate, innumerevoli piscine, un distributore privato di benzina: l’Hacienda Nápoles. Poteva mancare uno zoo? Naturalmente no. Escobar vi aveva importato varie specie animali, incluse zebre, antilopi, giraffe, tutte quelle che il denaro poteva comprare. Con la morte del narcotrafficante, avvenuta nel 1993 in uno scontro a fuoco con la polizia colombiana, il suo impero è andato in rovina, fino all’acquisizione da parte del governo locale, nel 2007, che, con un’azienda privata, ne ha realizzato un parco e ha affidato gli animali a diversi zoo distribuiti nel mondo. Ma non gli ippopotami.

Spostarli poneva infatti grandi problemi logistici e rischi. Inoltre, gli investimenti richiesti per la stabulazione degli ippopotami negli zoo non sono una questione banale: «La maggior parte delle strutture non è in grado di ospitarli. Gli ippopotami sono difficili da tenere in cattività, sono enormi e il sistema di filtraggio dell’acqua [necessario per il grande quantitativo di feci che producono, ndr] è costoso», ha spiegato sullo Smithsonian Magazine Rebecca Lewison, ecologa della San Diego State University e co-chair dell’Hippo Specialist Group della IUCN.

Ma il problema è che, rimasti sotto custodia dell’agenzia ambientale locale dopo l’abbandono dell’hacienda e privi di ogni tipo di gestione, gli ippopotami si sono moltiplicati. A partire dai quattro individui originariamente importati da Escobar (un maschio e tre femmine), oggi le stime indicano che la popolazione sia cresciuta fino 180-200 esemplari circa, e si sia diffusa lungo il Magdalena River, dove vive anche la maggior parte della popolazione colombiana. E gli ippopotami continuano ad aumentare, forse perché raggiungono la maturità sessuale prima rispetto a quanto avviene in Africa, forse perché il minor conflitto per spazi e risorse permette loro un maggior successo riproduttivo. Secondo quanto affermano gli studi, nel 2040 la popolazione potrebbe raggiungere i 1.400 individui.

Al crescere della popolazione, crescono i rischi associati a quelli che ormai sono noti come i cocaine hippos, che causano incidenti stradali, distruggono le coltivazioni, entrano nei centri abitati (uno ha anche visitato il cortile di una scuola). Gli ippopotami sono in effetti animali aggressivi e, anche se finora non hanno causato incidenti mortali, il rischio è concreto.

Ma il problema non è solo il conflitto con la popolazione locale. È anche (forse soprattutto?) di ordine ecologico. I discendenti degli ippopotami di Escobar rappresentano la più grande popolazione al di fuori dell’Africa, ma la foresta umida tropicale che caratterizza la regione dove si sono espansi è un sistema ad altissima biodiversità, che non si è evoluto per supportare grandi erbivori. Un problema tra tanti, l’ippopotamo produce enormi quantitativi di feci (un singolo individuo medio di una tonnellata e mezzo di peso produce quasi 20 chili di feci al giorno), che si depositano in spessi strati sui fondali dei fiumi e ne alterano la composizione biochimica, mettendo a rischio la fauna autoctona. In Africa, questo è uno degli aspetti che li rende importanti “ingegneri ambientali”, ruolo che riprendono in Sudamerica con effetti però molto differenti. Per esempio, uno studio del 2020 ha evidenziato come nei laghi frequentati dagli ippopotami aumentino i livelli di cianobatteri, che riducono l’ossigeno disponibile: «Abbiamo visto arrivare l’ossigeno a livelli tali che ci si sarebbe aspettati di iniziare a vedere i pesci a pancia in su», ha commentato sul Washington Post Jonathan Shurin, primo autore dello studio.

Senza contare la sottrazione dello spazio trofico necessario a lamantini, capibara, lontre, tartarughe e altre specie native.

Dopo un lungo periodo di sostanziale mancanza di gestione, il problema dei cocaine hippos come specie alloctona invasiva – quale sono stati dichiarati – era diventato urgente. Inizialmente, l’approccio si è focalizzato sulla sterilizzazione, a causa delle proteste degli attivisti contrari alla loro uccisione, già insorte a seguito dell’abbattimento di un individuo nel 2009. Inoltre, gli ippopotami rappresentano un’attrazione turistica e una fonte di reddito per alcune persone del luogo.

A parte qualche timido tentativo partito negli anni precedenti, un primo progetto pilota era iniziato nel 2021, quando si era tentato anche di utilizzare la sterilizzazione chimica. Ma questa, che richiede più dosi somministrate a distanza di mesi nel corso di due anni, è risultata impossibile, perché non si riescono a tracciare gli animali che hanno ricevuto la prima somministrazione. Nel novembre 2023 è iniziata la fase di sterilizzazione chirurgica, da effettuare in situ (trasportare animali così pesanti in cliniche attrezzate, peraltro scarsamente disponibili, non è una soluzione attuabile). L’idea era arrivare a sterilizzare 40 ippopotami all’anno. Nonostante un notevole investimento (ogni intervento prevede un team di 7-8 componenti tra veterinari, tecnici, staff di supporto, e 6-8 ore di lavoro, senza considerare gli ingenti costi logistici), però, è stato possibile sterilizzare solo pochissimi individui (sette in tre mesi, secondo quanto riportato dallo Smithsonian Magazine). Le difficoltà pratiche sono oggettive: si tratta di operare in mezzo alla foresta animali enormi, con le gonadi nascoste sotto un considerevole strato di grasso e una pelle estremamente spessa e resistente.

Così, la soluzione più praticabile sembra ritornare quella dell’eutanasia degli animali. Il Plan para la Prevención, Control y Manejo del Hipopótamo del Ministero dell’ambiente colombiano, pubblicato a luglio, prevede sì il ricollocamento degli animali, il loro confinamento e attività di allerta e informazione per la popolazione, ma anche la caccia e l’abbattimento degli ippopotami.

Per chi contesta la scelta della soppressione degli animali, alcune delle argomentazioni sono basate sul fatto che, in fondo, questi sono fenomeni già avvenuti in passato (si pensi alle grandi estinzioni di massa, come quelle dovute alla deriva dei continenti) e che tentare di influenzarli sarebbe una scelta arrogante. E, naturalmente, gli ippopotami non hanno alcuna colpa, né di trovarsi al di fuori del loro areale di origine, né di esservisi riprodotti e insediati con successo. Per chi si pone a favore, invece, le argomentazioni evidenziano la responsabilità umana: a fronte di un tasso attuale di estinzione delle specie che è centinaia, se non migliaia di volte superiore a quello normale, la responsabilità (anche etica) di affrontare e tentare di risolvere i danni che abbiamo causato è innegabile. Anche perché il nostro benessere è strettamente legato a quello del pianeta che abitiamo e i danni ecologici causati dagli ippopotami finiscono per ripercuotersi anche sulla specie umana.

È il dilemma etico posto da ogni specie invasiva, dagli scoiattoli grigi americani e dalle nutrie in Italia ai gatti in Australia: cos’è peggio tra l’uccidere centinaia (e, a seconda delle specie, anche diverse migliaia) di animali oppure lasciare che facciano il loro corso nell’ambiente in cui sono riusciti a prosperare, lasciando però che, per conseguenza nemmeno tanto indiretta, ne muoiano molti altri?

 


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