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Animali non umani: un viaggio alla scoperta delle altre culture

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Cos’è la cultura? Per secoli ci siamo raccontati di essere gli unici esseri viventi sulla Terra in grado di fare pensieri complessi, provare emozioni, comunicare, imparare e trasmettere conoscenza ai nostri simili. Ma si tratta di un grosso abbaglio, come ci racconta l’ecologo Carl Safina in Animali non umani (Adelphi, 2023)

Crediti foto: Francesco Ungaro su Unsplash

«Ciò che è naturale non sempre viene naturale: molti animali devono apprendere dai loro anziani come diventare ciò che sono destinati ad essere». Con questa frase si apre Animali non umani, un lungo e appassionante saggio in cui l’autore, Carl Safina, esplora la cultura e la socialità animale, trasportando il lettore nei suoi viaggi e condividendo con lui la meraviglia della scoperta. Scorrendo le pagine si naviga sulle acque cristalline a largo di Dominica per incontrare le famiglie di capodogli, poi si scrutano le fronde verdi dell’Amazzonia peruviana per scorgere la meravigliosa livrea rossa gialla e blu delle are scarlatte, e infine si cammina nell’aria umida e calda delle foreste ugandesi per sedersi di fianco agli scimpanzé. E osservando tutti questi animali, insieme ai ricercatori che li seguono con passione da lungo tempo, ci rendiamo conto di quanto simili e nel contempo distanti da noi siano le altre specie che popolano il pianeta. Simili a noi, perché provano emozioni, hanno personalità, creano legami intensi e hanno bisogno degli altri per imparare a vivere e sopravvivere (il titolo originale del saggio non a caso è Becoming wild, ovvero Diventare selvatici). Diversi, perché hanno forme, dimensioni, abilità e sensi molto differenti dai nostri, e quindi lo è il loro modo di sperimentare l’ambiente, di comunicare e di apprendere.

In Animali non umani, Safina riprende il filo di una matassa che ha iniziato a dipanare nel suo precedente saggio, Al di là delle parole (sempre pubblicato in Italia da Adelphi), mettendo in crisi l’antropocentrismo che ha segnato a lungo le credenze comuni e le scienze naturali stesse, e che ancora fatica a scomparire. Safina è un biologo, un professore universitario, oltre a uno scrittore di saggi pluripremiati. I suoi libri hanno un perfetto equilibrio tra il rigore scientifico che documenta in modo meticoloso ogni affermazione, e una narrazione che cerca di andare oltre quel che si cerca di descrivere con statistiche e modelli matematici.

L’etologia è nata nel 1900, quindi è poco più di un secolo che si è iniziato a sistematizzare l’osservazione e lo studio del comportamento degli animali, a decifrarne i linguaggi e le abitudini. Ma per lungo tempo gli etologi sono stati imprigionati da un tabù, quello che Safina chiama “antropo-fobia”, cioè la paura di antropomorfizzare gli animali. Il che è in parte corretto: non possiamo attribuire il nostro modo di vivere e sentire a esseri viventi diversi da noi. Noi non sentiamo gli ultrasuoni come i pipistrelli o i delfini e nemmeno gli infrasuoni degli elefanti e delle balene, non vediamo l’ultravioletto che guida gli insetti ai fiori, di notte siamo ciechi al contrario di un gatto, non potremmo mai annusare gli odori alla stregua di un cane o un orso, né ricordare perfettamente a memoria come uno scimpanzé la localizzazione e lo stato di maturazione dei frutti di migliaia di alberi sparsi nell’intricata foresta tropicale. Questa “antropo-fobia” ha però portato gli scienziati a compiere l’errore opposto: quello di ridurre gli animali a poco più di oggetti animati, negando così le evidenze. «Se non troviamo difficile dire che un animale abbia fame, sete o sonno, non dovrebbe essere così complicato pensare che possa provare divertimento, paura, ansia, piacere, benessere, aggressività», afferma Safina. Sebbene questo atteggiamento stia cambiando nella biologia moderna, continua a incontrare sacche di resistenza di una visione scientifica tradizionale e ortodossa, tramandata e divulgata al grande pubblico. Eppure, lo stesso Darwin aveva indagato le emozioni degli animali, dedicando un saggio all’argomento, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Affermare che un elefante o un capodoglio o uno scimpanzé provino emozioni non significa affermare che compongano la sera poemi o scrivano saggi sul senso della vita o compiano scoperte scientifiche (e d’altra parte non tutti gli esseri umani lo fanno!), ma riconoscere loro capacità che li accomunano a noi in quanto mammiferi, esseri viventi dotati di circuiti cerebrali e ormoni simili: «È una questione di prospettiva. Non esistono animali come l'uomo, ma al contempo non ci sono animali come gli elefanti o come le balene o come le aquile. La nostra principale limitazione è che siamo chiusi dentro la nostra prospettiva e fatichiamo a osservarci a distanza. Poiché pensiamo di essere il punto di riferimento, tutto il resto non può che fallire, non riuscendo a fare le cose come noi. Ogni specie è diversa. Ma allo stesso tempo tutte le specie sono simili: tutte sono legate da un rapporto di discendenza» commenta Carl Safina.

Il passo successivo al riconoscimento delle emozioni è quello di ammettere l’esistenza di una cultura animale, andando ancora una volta a decostruire una convinzione umana molto radicata: quella di essere speciali perché unici capaci di apprendere e dotati di tradizioni culturali, al contrario degli animali che sono guidati dall’istinto. Come in noi ci sono comportamenti universali, che trascendono il luogo e le tradizioni in cui siamo nati e cresciuti (pensiamo a espressioni facciali come il pianto o il sorriso), così molte specie hanno un mix di istinto e di apprendimento. In tanti casi questo si limita al periodo tra la nascita e la maturazione sessuale. Nelle specie che hanno sistemi sociali complessi, invece, c’è un vero e proprio trasferimento di competenze o conoscenze. Così i capodogli vivono in gruppi di femmine imparentate, più famiglie si riconoscono parte di un clan, al cui interno si parlano dialetti specifici. Una famiglia di capodogli collabora nella crescita e nella difesa dei piccoli e socializza esclusivamente con i membri del proprio clan, e ignora gli altri. Una cosa simile succede nelle orche: nel Pacifico nordoccidentale, ci sono orche che si nutrono esclusivamente di pesci e altre solo di mammiferi. Pur appartenendo alla stessa specie e vivendo nelle stesse acque, si evitano, perché hanno linguaggi, strategie di caccia e abitudini diverse. A guidare gli spostamenti di un gruppo di elefanti (molto simile a quello dei capodogli!) è la matriarca, la più anziana, che conosce tutte le fonti di acqua e di cibo, nonché il tragitto migliore per arrivarci. I branchi di lupo, un tempo descritti come governati da rigide gerarchie e da lotte di potere, non sono altro che famiglie molto legate, che cooperano nella difesa del territorio e nella caccia, e in cui i figli imparano dai genitori a conocere il territorio e a predare.

Safina ci racconta di elefanti, lupi, capodogli, pappagalli, orche e scimmie antropomorfe. Nessuna di queste specie è immune alle minacce umane: alcune sono decimati dal traffico illegale, altre vengono braccate per via dei conflitti con le attività produttive o per la loro cattiva fama, quasi tutte si trovano a fare i conti con ambienti fortemente impattati e frammentati dall’azione antropica. Studiare la cultura animale è quindi importante anche per vincere la sfida della conservazione, in un Antropocene che vede la biodiversità fortemente minacciata. «Non dovremmo mai arrivare a perdere o eliminare tutti gli individui di una specie da una regione perché le reintroduzioni non potranno mai restituire la cultura, la conoscenza di come vivere in quel luogo» spiega Safina. «Molti uccelli e mammiferi imparano dai genitori e dagli individui più anziani cos’è il cibo, dove si trova, dov’è l’acqua, cos’è pericoloso e quali sono le rotte di migrazione. Per alcune specie, acquisire culturalmente alcune conoscenze è cruciale per la sopravvivenza. Per altre non è così fondamentale. Per animali che vivono in gruppi sociali strutturati, come molti primati e gli elefanti, la sopravvivenza è essenzialmente impossibile senza il sapere degli anziani».

Scendere dal piedistallo in cui ci siamo arrogantemente posizionati è purtroppo un percorso lento. Ci siamo sempre sentiti superiori alle altre creature, il punto di arrivo dell’evoluzione, la specie più intelligente del pianeta, quella dal cervello più grande e sviluppato, l’unica in grado di costruire, l’unica dotata di un linguaggio e l’unica dotata di sentimenti. Eppure, proprio con L’origine delle specie Darwin ci dice che non esiste alcuna posizione speciale per gli esseri umani, e poi il progresso scientifico ci mostra la grande complessità degli altri animali, sia in termini di adattamenti fisici che comportamentali. Allora perché non riusciamo ad accettare che si tratta di diversità e non di superiorità? Per Safina, facciamo davvero molta fatica a rivolgere il nostro reale interesse agli animali, a voler capire chi sono e apprezzarli per quello che sono perché siamo sempre troppo ego-riferiti e in cerca di una risposta che ci dica qualcosa in più su di noi. L’ultimo animale che incontriamo in Animali non umani è lo scimpanzé. Anzi, per la precisione  due comunità distinte di scimpanzé che abitano nelle foreste tropicali dell’Uganda: Waibira e Sonso. Gli scimpanzé condividono più del 98% dei nostri geni. Ancora oggi molti li confondono con una sorta di abbozzo di un nostro antenato primitivo, mentre sono semplicemente altri primati che vivono con noi ora su questo pianeta, e che, come troppe altre specie, sono in un drastico declino a causa della deforestazione e del commercio illegale. Ogni comunità di scimpanzé è diversa, per composizione, numerosità, e tradizioni. Non tutte sanno fare le stesse cose o hanno gli stessi equilibri sociali. Ogni gruppo che scompare è un pezzo di cultura che si perde per sempre.

Riusciremo a uscire dal nostro storico antropocentrismo e guardare agli altri esseri viventi per quello che sono? Riusciremo a sentirli più affini e a dare un valore alla loro esistenza o lasceremo che molte specie scompaiano e con esse la loro ricchezza culturale? Potrà mai la conoscenza aiutarci a provare empatia e a trovare una via per la coesistenza? Questi i grandi interrogativi con cui ci lascia il libro. «Abbiamo molto lavoro da fare» risponde Safina. «Purtroppo, facciamo fatica a credere che altri esseri umani siano simili a noi e abbiano le stesse esigenze. Credo però che per molti sia più facile avere compassione per gli animali che per le persone. Certamente abbiamo bisogno di provarla per tutti e due. E dobbiamo lavorare in contemporanea su entrambi i problemi. Se non lo facciamo, rischiamo non solo di impoverire il mondo vivente, ma anche di perdere la nostra umanità».

 

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