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Antropocene o Wasteocene? Cosa cambia

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Il termine “Wasteocene”, o “era degli scarti”, ha fatto il suo ingresso nel dibattito culturale internazionale circa cinque anni fa, agli inizi di aprile 2017. Il debutto è avvenuto grazie a un articolo di circa tredici pagine, integrato da una cinquantina di riferimenti bibliografici, pubblicato da South Atlantic Quarterly e firmato da Marco Armiero (Istituto di Studi sul Mediterraneo, CNR) e Massimo De Angelis (University of East London). È probabile che questa rivista, pubblicata da Duke University Press, pur essendo ultracentenaria (1902), non sia nota a tutti, specialmente in Italia. Si visiti allora questo sito, che ne illustra la linea. Fu fondata dallo storico americano John Spencer Bassett (1867-1928) presso il Trinity College (ora Duke University), con l’intento di promuovere “la libertà di pensare”. Basset fu personalità assai controversa, come descritto qui.

Tornando all’articolo di Armiero e De Angelis, da cui è scaturito il libro di Marco Armiero L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale (Einaudi, 2021), si può dire che ne anticipava i temi principali. S’intitolava “Antropocene: Victims, Narrators, and Revolutionaries” e già allora faceva intuire chi era l’oggetto della critica degli Autori. Esponendo alcuni casi emblematici di resistenza all’ingiustizia ambientale, come quello di Orissa (India orientale), Bukaleba (Uganda), degli Aborigeni australiani e soprattutto della “Terra dei Fuochi” (Campania), gli autori si proponevano di demistificare la narrativa tradizionale dell'Antropocene indicando nel capitalismo la forza propulsiva della crisi socio-ecologica. In sostanza spostavano la responsabilità dalla specie umana, considerata un insieme indistinto con le stesse colpe, a un sistema economico e alle sue degenerazioni.

Del resto la critica all’Antropocene e la sostituzione del termine con Capitalocene è ormai di lunga data (2014) e risale a Jason W. Moore, autore tradotto anche in italiano con Antropocene o Capitalocene (Ombre corte, 2017). Il capitalismo, secondo questa corrente di pensiero, è un sistema che si fonda sulla subordinazione della natura, umana ed extra-umana, alle necessità della produzione e all’accumulazione di ricchezza. Già nell’articolo, Armiero e De Angelis superavano il termine di Capitalocene declinandolo come Wasteocene, per sottolineare la natura contaminante del capitalismo e la sua persistenza nel tessuto socio-biologico, oltre a rivelarne l’accumulo di effetti collaterali, sia all'interno dei corpi umani che in quello del Pianeta.

In sostanza, secondo loro, il Wasteocene sarebbe una caratteristica del Capitalocene e più idoneo a demistificare le narrazioni tradizionali dell’Antropocene.

Il libro firmato da Armiero sviluppa, amplia e rafforza in quattro, densi capitoli arricchiti da un’estesa bibliografia, i concetti anticipati nell’articolo, convalidando la teoria del Wasteocene con un’ampia e dettagliata casistica che, nel secondo capitolo “Storie del Wasteocene”, tratta anche casi italiani, come quello del Vajont. Proprio in apertura di questo capitolo Armiero ci ricorda che il ruolo principale degli storici non è semplicemente quello di ricordare il passato ma anche quello di organizzare la memoria collettiva per non dimenticare. Gli altri capitoli si occupano, nell’ordine, del passaggio dall’Antropocene al Wasteocene, di quest’ultimo “al microscopio” e, infine, del suo sabotaggio.

Leggere questo libro nel periodo delle festività con la vista dei cassonetti dell’immondizia debordanti di ogni tipo di rifiuti, abbandonati anche per terra e immagine inequivocabile dei nostri scarti materiali, è stato istruttivo. Attenzione però, i rifiuti, o meglio gli scarti, di cui parla il libro non sono soltanto quelli dei cassonetti o delle discariche ma anche gli esseri umani che il sistema pone ai margini della società, le comunità deboli che sopportano i disagi scansati dai fruitori del benessere e le discariche “socio-ecologiche”.

L’idea che i poveri siano tali perché incapaci di risollevarsi da soli dalle loro condizioni viene considerata un falso e il libro ci convince che le disuguaglianze, purtroppo, sono funzionali al sistema. Lo fanno capire, peraltro, anche le coscienze più sensibili al sociale, sulla scia del magistero di Francesco che ci parla continuamente degli “scarti” umani. Ad esempio, in una recente intervista all’arcivescovo di Milano, Mario Delpini (Corriere della Sera, 31/12/2021), a proposito delle ingiustizie del mercato del lavoro e del fenomeno del working poor, si legge: «Un po’ di vergogna la provo anch’io. Non abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare. Non abbiamo avuto coscienza di quale prezzo avesse il nostro benessere». Prendendo in esame, tra le altre, la crisi dei rifiuti degli anni Novanta e Duemila a Napoli, il libro di Armiero stigmatizza la narrazione tossica che considera colpevoli le vittime del degrado, mentre naturalizza «le relazioni socio-ecologiche che producono persone e luoghi di scarto».

Le narrazioni tossiche caricano sui singoli la colpa di essere poveri, subalterni o malati. È avvenuto anche durante il lockdown causato dalla pandemia, con la regola stringente di rimanere a casa, senza pensare alle conseguenze per coloro che non possedevano una casa grande, pulita e confortevole. Il libro pone domande che possono mettere in imbarazzo chi non è abituato a mettersi in discussione, lo fa con precisione e senza sconti al lettore. Riferendosi alla storia di un’attivista della discarica di Pianura (NA), ci presenta addirittura il manuale d’istruzioni del Wasteocene che, tra l’altro, contiene la seguente regola: «non chiederti dove vanno a finire i resti indesiderati del tuo benessere». Quante volte lo abbiamo fatto o ci bastava trovare strade e marciapiedi puliti senza preoccuparci di chi abitava nei pressi delle discariche e si ribellava?

Del resto non è forse una caratteristica del Wasteocene la normalizzazione delle relazioni socio- economiche ingiuste per giustificare la violenza della repressione? Armiero termina affermando che per un processo di vera emancipazione, assumere il controllo dei mezzi di produzione non basta, «se non trasformiamo in commoning le relazioni socio-ecologiche di luoghi e persone». Per saperne di più su questo vedasi qui. Il tema è complesso e le difficoltà da superare sono tante ma nel frattempo, tra un tampone e l’altro, è bene chiedersi che cosa si può fare per non collaborare alla violenza lenta e nascosta del sistema imperante e non soccombere al virus dell’indifferenza.

 


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