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La natura non esiste

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Il fast food è il male? Senz’altro, ma l’alternativa non è il ritorno al giardino roussoviano immunizzato alla tecnica: è semmai una natura trasformata da una scienza e una tecnologia ancora più sofisticate, sostenibili, efficienti. 

Crediti immagine: Henry Be/Unsplash

La natura non esiste, non esiste quel che ci passa per la testa ogni volta che la nominiamo, pensiamo a madre terra, al buono dei suoi frutti e al bello della sua armonia. Non che sia necessariamente matrigna, semplicemente non è. Al naturale e ai suoi immaginifici surrogati, a cominciare dal “Bio onnipotente” (copyright Luciano Capone), si ispirano mode, consumi, fortune di nutrizionisti e filosofie di vita, insomma tante cose belle. Ma pure equivoci non più sopportabili. L’amore per la natura favorisce abitudini più sostenibili e contribuisce ad alzare anche il Pil, e questo è un bene, quel che è insopportabile è la cattiva coscienza di cui si nutre questo amore. La passione per la Natura è oggi l’altra faccia di un viscerale odio per se stessi.

Oltre natura e cultura

C’è chi ha scritto che la natura è un’invenzione perché di nature ce ne sono tante quante sono le culture. Ci sono per esempio i cacciatori della taiga siberiana, i Samoiedi, o i sudamericani Achuar, che vivono al confine tra Cile ed Ecuador, civiltà che mai si azzarderebbero a concepire piante e animali come qualcosa d’altro, come un insieme diverso da quello degli umani. Per gli animisti piante e animali non sono realtà separate e a se stanti ma sono viventi con cui è possibile contrarre anche complesse forme di parentela.

Lo spiega Philippe Descola, allievo di Claude Lévi-Strauss (ma quanti ne avrà avuti!), docente al Collège de France di “Antropologia della Natura”, un insegnamento che da solo la dice lunga su quanto le cose siano meno ovvie di quel che appaiono. In Oltre Natura e Cultura, da poco edito in Italia da Cortina, Descola mette in crisi l’opposizione fra questi due regni e ci insinua il dubbio che la Natura sia in fondo un’invenzione recente. L’idea di natura che ci siamo fatta, oggetto conoscibile e separato dall’umanità, sarebbe figlia del Seicento razionalista. Si dirà, questa è roba da antropologi o, assai peggio, da filosofi. E in larga parte è vero, da Platone e Cartesio, da Tommaso d’Aquino a Marx, da Nietzsche a Lacan, intorno alla natura si è sempre giocato un micidiale conflitto di idee. Il fatto è che di queste magniloquenti ostilità oggi, più terra terra, rischia di rimanerci poco più che un’equivoca ombra.

Il cornoletame è una favola. E tutto il resto?

A darcene misura sono le recenti polemiche sul cornoletame, le vesciche di cervo e altre amenità dell’agricoltura biodinamica, giudicate dai Senatori della Repubblica italiana degne di poter essere finanziate da fondi europei purché rispettose dei protocolli dell’agricoltura biologica. Lanciata nel 1925 dal teosofo tedesco Rudolf Steiner, l’agricoltura biodinamica ha alcune somiglianze con quella biologica (fondata sull’eliminazione dei pesticidi), ma se ne differenzia per la presenza di pratiche ai limiti dello stregonesco, tra cui l’utilizzo di preparati a base di teschi, pelli di topo, corna di vacca o vesciche urinarie di cervo nelle quali infilare cortecce, fiori o letame. Tutti (giustamente) a scandalizzarsi per l’imprimatur di legge alle stravaganze biodinamiche, ma a destare preoccupazione non dovrebbero essere solo i seguaci di Steiner (che, sia chiaro, a spese loro sono liberissimi di lavorare la terra e conquistare il mercato con il cornoletame), a impensierire dovrebbero essere anche i fan del biologico, devoti di Terra Madre, apostoli dell’equazione tra natura e bontà.

Un mercato in crescita

Il biologico è un settore in costante crescita. Secondo un recente rapporto della Confederazione Italiana Agricoltori, il consumo di prodotti biologici ha segnato un + 4,4% nel 2019 e un +180% dal 2010 a oggi. Crescita continuata anche nel 2020 durante il periodo del lockdown (marzo-maggio 2020) con un incremento dell'11%. Secondo un’analisi del WWF, nel 2020 si è registrato anche un trend positivo per l'e-commerce con l'acquisto online di prodotti biologici per il 12,5% del totale delle vendite, e sono oltre 22 milioni le famiglie italiane che hanno acquistato almeno una volta un prodotto biologico nell'ultimo anno, per un giro di affari complessivo di 3,3 miliardi di euro. Tutto bellissimo, se non fosse che il messaggio che tiene in piedi la giostra è che il biologico è buono perché è naturale. Come se ci fosse un’agricoltura naturale e una artefatta. Si esalta il biologico in ogni dove facendo finta di non sapere che il biologico autentico, rispettoso di madre Terra, è un non senso.

Domesticazione dell'essere

Nessun prodotto ortofrutticolo che troviamo nel banco del supermercato è mai esistito spontaneamente in natura e lo stesso vale anche per gli animali da allevamento. Questi viventi sono il frutto di millenni di selezione attuata dall’uomo da quando ha cominciato a insediarsi nella Mezzaluna fertile rinunciando al nomadismo. L’agricoltura coincide con la domesticazione delle piante e degli animali. La natura che tanto ammiriamo è un prodotto dell’uomo.

Peter Sloterdijk va oltre e spiega che con l’agricoltura e l’allevamento ha avuto inizio la “domesticazione dell’essere”, è cioè cambiata la nozione stessa di naturalità perché la scoperta del fatto tutt’altro che scontato di poter considerare animali, piante e noi stessi non più come un dato ma come un prodotto, ha progressivamente trasformato lo sguardo sul mondo in un modo così radicale da non poterlo più nemmeno immaginare a prescindere dalla tecnica. Il paesaggio che amiamo siamo noi, i frutti che adoriamo perché biologici li abbiamo inventati noi. A parte qualche bacca o frutto selvatico, tutto è stato manipolato e inventato dall’uomo. Dal Neolitico in poi l’uomo non ha mai smesso di modificare il patrimonio genetico delle specie a lui più utili tramite selezioni e, negli ultimi decenni, tramite la tecnologia genetica.

“Le piante che mangiamo sono l’opposto di quello che avrebbe selezionato l’evoluzione naturale”, scrive Roberto Defez, direttore del Laboratorio di Biotecnologie microbiche all'Istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR di Napoli. “Sono piante selezionate dal predatore (noi), di cui mangiamo i figli (i semi). È come se avessimo selezionato dei topi perché saltino in bocca ai gatti: niente di più innaturale e opposto alla selezione della specie”.

Slow religions

Si tratta di cose ovvie e invece appaiono come bizzarrie. Un ruolo non banale nella formazione di un immaginario così scandalosamente naif lo hanno senz’altro giocato anche decenni di marketing delle idee come quelle propugnate da Slow Food, benemerita associazione che nel nome di meritorie campagne a sostegno delle filiere corte, del cece di Teano, del fagiolo quarantino di Volturara o del Caciocavallo podolico della Basilicata, ha finito per sacrificare il più elementare buonsenso.

Carlo Petrini, presidente di Slow Food, afferma per esempio che “I produttori di cibo buono, pulito e giusto (per la maggior parte contadini), quelli non ancora segnati in modo irrimediabile dallo strappo del cordone ombelicale con la Terra, posseggono un sapere che non si impara a scuola, che non si calcola con formule matematiche, ma che è la risultante di un rapporto simbiotico con il creato che molti di noi su questa Terra hanno perduto”. Il tono è profetico, il timbro religioso, le maiuscole non banali così come l’antitesi tra sapere autentico, frutto della “simbiosi con la Natura” e inautentico, meno autentico, in qualche modo artefatto, quello matematico, che poi vuol dire tecnico e scientifico. Petrini critica i paradossi dell’“agroindustria”, che poi è un altro nome per dire “turbocapitalismo” o “capitalismo selvaggio”, e va pure bene, solo che lo fa argomentando in sostegno di una natura che non esiste, di una bontà il più delle volte immaginaria perché per fortuna nessuno può ricordare quanto il cibo di una volta fosse pessimo, le verdure amare, la carne maleodorante e il latte acido.

Dove si nascondono i reazionari

“Sarebbe urgente difendere l’uomo contro la tecnologia del nostro secolo” scriveva verso la fine degli anni ‘50 Emmanuel Lévinas a proposito delle riflessioni di Martin Heidegger sulla tirannia della tecnica e l’eclissarsi della Natura. Ben consapevole dei disastri di cui l’uomo armato dalla potenza di fuoco tecnologica è capace, Lévinas metteva tuttavia in guardia dai seguaci del mito della Natura. “La tecnica non minaccia soltanto l’identità delle persone. Essa rischia di far saltare il pianeta. Ma i nemici della società industriale, per lo più, sono dei reazionari”.

Agli adoratori del “Luogo” e del “radicamento”, Lévinas ricorda che è la tecnica a demistificare l’universo, è il pensiero logico a liberare dai particolarismi umani. Contro l’eterna seduzione del paganesimo e “al di là dell’infantilismo dell’idolatria da molto tempo superato”, Lévinas ricorda che è la tecnica ad aver “sfatato la Natura” e ad aver aperto la strada alla scoperta dell’umanità dell’uomo.

Il fast food è il male. E allora?

Ma torniamo a noi. Il fast food è il male? Senz’altro, ma l’alternativa non è il ritorno al giardino roussoviano immunizzato alla tecnica, è semmai una natura trasformata da una scienza e una tecnologia ancora più sofisticate, sostenibili, efficienti. Il contrario dell’agroindustria è un’agroindustria più progredita, il contrario della natura artefatta è una natura artefatta meglio. Il Caciocavallo podolico della Basilicata così come il cece di Teano sono prodigi della tecnica non della natura.

Nelle Operette Morali, Giacomo Leopardi smaschera bene questo meccanismo e scrive “Una grandissima parte di quello che chiamiamo naturale, non è, anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti entro certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente: è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”. Il bio l’ha creato l’uomo anche se, per una sorta di cancel culture di tutto ciò che ci ha reso più agevole la vita, ci dispiace doverlo ammettere.

 


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