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Contagio a grappoli e da superdiffusori

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Cerith Wyn Evans, "...the Illuminating Gas", Hangar Bicocca, Milano, 23/5/2020. Fotografia di Renata Tinini.

Nel mese di marzo, le autorità sanitarie locali sono state informate che tre membri del coro amatoriale della contea di Skagit, vicino a Washington, erano risultati positivi al coronavirus e che altri 25 avevano sintomi compatibili con l’infezione. Dall’indagine sanitaria è poi emerso che, su 61 partecipati al coro, 53 erano sintomatici, di cui 33 confermati positivi al virus; tre sono stati ricoverati e due sono morti. Ogni martedì, fino al 10 di marzo, data in cui un corista si è presentato con il raffreddore incriminato, queste persone (il 75,5% dei quali aveva più di 65 anni), hanno cantato (con emissione forzata di droplet), sono restate una accanto all’altra, si sono divise snack o bevande nell’intervallo e hanno impilato le sedie alla fine della prova, durata due ore e mezza.

Ce n’è abbastanza da considerare questi ripetuti eventi come sicuramente rischiosi, anche se il primo sintomatico non fosse stato un superdiffusore, capace di spruzzare davanti a sé un aerosol virale più potente e duraturo della media delle persone. 

In questa occasione, si sono riproposti gli estremi dei casi dell’anziana fedele sudcoreana che ha infettato da sola un’ottantina di correligionari in chiesa, delle discoteche sudcoreane e delle feste familiari multiple di Chicago che hanno visto singole persone nell’inconsapevole ruolo di untori.

Va ricordato che, accanto al meccanismo di trasmissione aerea delle infezioni più enfatizzato, che riguarda gli starnuti e la tosse (atti espiratori esplosivi in cui le goccioline veicolanti il microrganismo sono addirittura visibili), anche la normale conversazione sparge particelle patogene: uno studio dell’anno scorso ha dimostrato che la loro quantità varia da 1 a 50 particelle al secondo, indipendentemente dalla lingua parlata, ma proporzionalmente all’altezza della voce e che c’è una piccola quota di speech superemitter, che emettono molte più particelle della media degli individui, per varianti fisiologiche della fonazione ancora ignote, che prescindono dall’ampiezza vocale.

Eventi superdiffusori

I CDC (Centers for Diseases Control and Prevention) hanno messo in guardia gli americani soprattutto dagli eventi superdiffusori, in cui una o poche persone potrebbero contagiarne decine di altre, complice il mancato distanziamento fisico ma non solo quello. Infatti, un evento si configura come superdiffusore per il convergere di coincidenze biologiche e logistiche: il virus deve essere in una fase di alta trasmissibilità e ci deve essere un assembramento di persone impegnate in attività in cui vi è una continua espirazione, come il parlare, specie a voce alta, e il cantare. 

Per quanto riguarda il primo requisito, si sa che la quantità di virus diffusa (la carica virale) cambia da un individuo all’altro e tende ad aumentare fino alla comparsa dei primi sintomi, con un massimo nella fase immediatamente pre-sintomatica. Come ha postato, sul suo blog, il biologo dell’University of Massachusetts Dartmouth Erin Bromage, il contagio può verificarsi con l’inalazione di mille particelle virali con un singolo respiro o di cento particelle virali con dieci respiri o di dieci particelle virali con cento respiri: insomma, anche se non ci sono dati sperimentali su questo nuovo virus, quelli prodotti sui virus di SARS e MERS inducono a pensare che la formula dell’infezione sia sempre la stessa: quantità di virus inalato x tempo di inalazione

Meglio stare all'aperto

Per quanto riguarda, invece, la logistica della diffusione virale, secondo le prove finora accumulate gli ambienti più rischiosi sono le case, i luoghi di lavoro, i trasporti pubblici, gli eventi sociali e i ristoranti. Durante lo shopping, invece, lo scarso affollamento del negozio o del supermarket (imposto dalle misure di legge) e il poco tempo che vi si trascorre, riducono la probabilità di essere infettati; ciò non vale, ovviamente, per i commessi. 

Se si vuole non rinunciare agli eventi superdiffusori, ma limitare il rischio di un aumento dell’R0 legato a essi, occorre che tutti i partecipanti usino le mascherine (che possono, in qualche misura, trattenere le particelle virali, purché non siano spinte da un colpo di tosse, come ha dimostrato uno studio sud coreano) e preferire quelli che si svolgono in luoghi aperti. Infatti, uno studio giapponese (un preprint, come gran parte degli studi disponibili, cioè non vagliato da una peer review) su 110 casi sia sporadici sia afferenti a 7 cluster, è riuscito a calcolare i contagi primari (24,6%) e a tracciare i contatti che hanno portato a quelli secondari e ha potuto, così, stabilire che il contagio era 18,7 volte maggiore negli ambienti chiusi che in quelli aperti.

Parlando di spazi aperti, il pensiero corre... ai runner. Uno studio belga-olandese confuta l’assunto che le droplet cadano sul pavimento o evaporino dopo aver percorso un metro e mezzo, o meglio, avverte che questa misura è precauzionale tra persone che stanno ferme e zitte, ma non contempla l’effetto del movimento. Gli autori, sulla base di esperimenti di fisica aerodinamica e con l’utilizzo della galleria del vento, affermano che la massima esposizione alle droplet di una persona che corre o che va in bicicletta tocca a chi fa lo stesso movimento dietro di lui, nella sua scia e che questa esposizione aumenta col diminuire della distanza tra i due. In assenza di vento, la distanza di sicurezza, se si cammina a 4 km/h è di circa 5 metri e se si corre a 14.4 km/h è di circa 10 metri. Le attività fisiche individuali come lo jogging o il ciclismo, lungi dal dover essere limitate, andrebbero supportate con il suggerimento delle giuste distanze da rispettare in caso d’incontro con altre persone (oltre i 3 metri) e l'avvertimento che svolgere queste attività in compagnia (se non di conviventi) aumenta le possibilità di contagio; i runner più esperti, d’altronde, spesso preferiscono correre da soli. Nei luoghi pubblici, inoltre, andrebbero predisposti percorsi distinti tra chi pratica sport e per chi semplicemente passeggia. 

Contagio a grappoli

L’argomento degli eventi super diffusori è strettamente collegato a quello dei cluster: la parola, che peraltro è sempre scritta in inglese, significa “grappolo” e fa riferimento all’addensarsi di un accidente su un gruppo di persone tra loro connesse, trascurando le altre. SARS-CoV-2, come i suoi due predecessori SARS e MERS, sembra particolarmente incline ad attaccare cluster. In assenza di distanziamento sociale, il numero di riproduttività del virus (R) varia da 2 a 3; nella vita reale, però, alcuni individui infettati propagano il virus a molti altri e alcuni non lo fanno per niente, forse a causa di una differente distribuzione dei recettori ACE nel loro organismo. Anzi, secondo Jamie Lloyd-Smith dell’Università della California, Los Angeles, la seconda evenienza è la regola. Per questa ragione, gli addetti ai lavori, in aggiunta a R, usano un valore, chiamato “fattore di dispersione” (k) che descrive quanto la malattia colpisca dei grappoli di persone (clusterizzi): più basso è k, maggiore è la trasmissione da parte di un piccolo numero di individui affetti. 

Per tornare alla già studiata SARS, il suo k era pari a 0,16; quello di MERS, era circa 0,25. L’influenza spagnola, al contrario, aveva un k pari a 1 e, infatti colpiva chiunque, alla spicciolata. Per SARS-CoV-2, sono stati fatti alcuni modelli, il più recente dei quali, di Adam Kucharski della London School of Hygiene and Tropical Medicine, arriva alla conclusione che abbia un k inferiore a 0,1: “E’ probabile che il 10% dei casi sia responsabile dell’80% della diffusione” ha sostenuto il giovane epidemiologo matematico. 

La teoria della sua propensione a colpire per cluster può spiegare la differente diffusione del virus nelle varie nazioni (e all'interno dei paesi nelle diverse regioni), dopo che è uscito dalla Cina: alcuni cluster infettivi, isolati, si estinguono e il virus deve essere introdotto in altri luoghi e situazioni per poter, alla fine deflagrare.

Tuttavia, l’esistenza e la consistenza dei cluster sono molto difficili da studiare: il lockdown ha eliminato molte occasioni di aggregazione, la memoria della gente per gli eventi cui ha partecipato è selettiva, l’ossessione per la privacy mette i bastoni tra le ruote e non tutte le istituzioni fanno un tracciamento efficienti dei casi. 

 

Bibliografia
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