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Un farmaco è più sicuro se non costa troppo

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Pill capsules in hands. Credit: Daniel Foster / Flickr. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.

Mi affaccio in farmacia, vedo la coda al banco e giro sui tacchi. Quel che volevo non è urgente, e neppure essenziale. Esco dietro a un mio coetaneo, a occhio e croce, che regge due sporte di confezioni e calcolo mentalmente che la media tra noi due, alla Trilussa, dovrebbe corrispondere ai dati ufficiali, secondo cui ogni italiano, dalla nascita al punto di morte, assume ogni giorno una dose di medicinale. Con una spesa totale di quasi 30 miliardi di euro l’anno.

Un farmaco al giorno... fa bene, fa male o non fa nulla?

Dipende da questi larghi consumi l’ottima salute di cui godiamo? In generale quasi certamente no, ma non c’è dubbio che, dai rimedi che si vendono in farmacia, ci aspettiamo che producano qualche effetto, o almeno che non facciano danno.

All’inizio del saggio Farmaci sicuri, Silvio Garattini va al sodo della questione ponendosi la domanda da un’altra angolazione: quando possiamo dire che un medicinale fa bene, fa male o non fa nulla?

La risposta è difficile e complessa. Garattini e Vittorio Bertelé, con l’aiuto di alcune ricercatrici, tutte come loro dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, hanno scritto 13 capitoli per accompagnare passo dopo passo il lettore, anche chi non ne sa nulla, lungo tutto il processo scientifico che consente di individuare quali medicinali sono utili per la salute.

Silvio Garattini e Vittorio Bertelé, Farmaci sicuri - La sperimentazione come cura, Edra, 2018 Milano - pagg. 160, € 9,90.

Non è mia intenzione riassumere in questa recensione il percorso del libro, quanto piuttosto consigliare di leggerlo, anche a chi pensa di sapere bene che cosa sia un “trial clinico controllato e randomizzato”, perché la necessità profonda di tutti gli ingredienti non è scontata concettualmente e nelle conseguenze che produce.

Mi è capitato anche recentemente, parlando per esempio dell’attività che svolge un Comitato etico con persone colte e intelligenti ma di altri ambiti, di rendermi conto che non è per nulla chiaro perché, per provare una nuova cura, non basta somministrarla e vedere l’effetto che fa.

Per capirlo bisognerebbe passare attraverso le forche caudine della cosiddetta contro fattualità, cioè chiedersi che cosa sarebbe successo se la nuova cura non fosse stata assunta. Il cervello umano non è a suo agio nel riavvolgere mentalmente il film di ciò che è già accaduto e immaginarsi un’altra conclusione: la scorciatoia è di far accadere cose diverse (diverse terapie) in parallelo a un drappello di malati tra loro il più possibile simili, e confrontarne gli esiti.

La sperimentazione come cura

È questo il significato di “sperimentazione come cura”, che è il sottotitolo del libro. Per rimediare all’incertezza, intrinseca alla medicina, di non poter sapere che cosa sarebbe accaduto al singolo malato, la risposta è la sperimentazione, che diventa il solo modo razionale di curare.

È una risposta indubbiamente difficile, ma per quale motivo diciamo che è anche complessa?

Il guaio nasce dalla natura duplice che hanno finito per assumere i farmaci negli ultimi decenni, con la crescita inarrestabile dell’industria della salute. Il mercato globale dei medicinali vale oggi 2 mila miliardi di euro, e le prove scientifiche che si ottengono con la sperimentazione sono anche il lasciapassare per ricavi a nove zeri. Beni di consumo o strumenti di salute?, si chiede Garattini. A volte le due cose coincidono, spesso divergono.

Anche quando le carte non vengono truccate, i trial clinici su un nuovo farmaco possono essere organizzati per ottenere l’immissione in commercio o per rispondere alle domande e ai bisogni dei malati, e dei loro curanti. Difficilmente si possono perseguire entrambi gli scopi con un unico disegno, e il primo prevale oggi sempre più spesso.

Industria della salute e ricerca indipendente

Per controbilanciare il predominio del mercato da anni si invoca un maggior spazio per la ricerca indipendente. Giustamente, soprattutto se l’appello viene da un ente no profit come il Mario Negri, ma ultimamente sembra che questo contrappeso, anche se finalmente arrivasse, non potrebbe più bastare.

Negli ultimi anni il prezzo dei nuovi farmaci messi sul mercato ha raggiunto livelli di insostenibilità che impongono non solo una comprensione del fenomeno, ma anche l’elaborazione di soluzioni più radicali, prima che sia troppo tardi.

I profitti sono ormai talmente alti che, da una parte, hanno trasformato l’industria farmaceutica in un’attività prevalentemente finanziaria e di marketing (la ricerca si fa altrove, e la produzione anche), dall’altra renderebbero marginale qualsiasi ricerca indipendente, anche se ottenesse, dai governi o dai cittadini, risorse molto maggiori delle attuali.

Prezzi, profitti e innovazione

È falso sostenere che senza i profitti smisurati non ci sarebbe più innovazione, e istituzioni come il Mario Negri, che non fa brevetti e profitti, lo dimostrano coi fatti.

Sarebbe perciò urgente modificare profondamente e a livello globale i meccanismi che premiano la ricerca, abbandonando il sistema attuale che non tutela più chi fa le scoperte, ma assicura rendite spropositate a chi compra i diritti di prodotti già sviluppati.

In conclusione, per essere sicuri dei farmaci che usiamo, occorre sapere che fanno anche bene alla salute, perché altrimenti prevalgono gli effetti negativi, che ci sono sempre quando non si tratta di acqua fresca. Per essere sicuri, inoltre, i farmaci non devono neppure costare troppo, non solo per ragioni di accessibilità e sostenibilità, ma perché altrimenti gli interessi economici in gioco rischiano di prevalere su quelli della salute.


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