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Safecast: una rete di volontari misura le radiazioni di Fukushima

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Il gruppo di lavoro di Safecast. Credit: Safecast.

Tempo di lettura: 9 mins

Una nube radioattiva non ha un odore, come il gas dei fornelli. Una nube radioattiva non ha colore. D’altra parte non è una nuvola per come la intendiamo. Sulle mappe, però, una nube radioattiva ha un colore: è rossa, arancio o gialla, a seconda dell’intensità della radiazione.

Dalla prefettura di Fukushima le ultime notizie raccontano che i cinghiali scorrazzano per le strade di Namie e di Tomioka, cittadine nelle vicinanze della centrale nucleare, tra le case che il maremoto ha spostato o che sono state abbandonate. Ma il cuore nero di Fukushima Dai-Chi continua a pulsare, anzi con più forza. All’interno del reattore 2, il combustibile nucleare esausto ha creato un buco di due metri sul fondo del guscio di contenimento. Si stima che lì ci siano 530 Sievert l’ora, una quantità di radiazioni capace di uccidere un uomo in pochi istanti. Anche i robot, inviati in cerca delle barre di uranio, sono morti in due ore: il sito è inavvicinabile.

Sono passati sei anni dal disastro. Quella volta il terremoto di magnitudo 9.0, e, cinquanta minuti dietro di lui, la grande onda di 14 metri, 津波, tsunami, colpirono la centrale nucleare che si affacciava sul mare. I noccioli dei tre reattori fusero, le radiazioni si sprigionano, nell’aria e nell’acqua; il premier giapponese dichiarò l’evacuazione delle città entro 30 km dalla sorgente della nube. Azby Brown, designer e storico dell’architettura, si trovava a Tokyo al Kit Future Design Institute, di cui è ancora oggi direttore. Joe Moross, ingegnere esperto di radiazioni, era invece all’Istituto nazionale per le ricerche sulle materie inorganiche della città di Tsukuba.

http://cerea.enpc.fr/fukushima/media/cumulated_total_deposition_ground_fukushima-2.png

Le concentrazioni radioattive, dopo il disastro, (CEREA – Ecole des Ponts Paris Tech).

Li incontro all’ICTP, Centro internazionale per la fisica teorica “Abdus Salam”. La sala è come un grosso laboratorio interattivo, con i tavoli ordinati sulla destra, dove poggiano forme geometriche tridimensionali e colorate, schede di chip come carte da tavolo e robottini affascinanti che fanno cose in apparenza poco comprensibili. Ce n’è uno che con una sorta di spola lavora un oggetto dalla tessitura tridimensionale: è una stampante 3d e mentre lavora emette una musichetta. Seduti su un divanetto verde, con alcuni gusci di noce sul tavolo, Azby Brown e Joe Moross – che sono qui per tenere il seminario – presentano immediatamente la loro creatura: il bGeigie, uno strumento che raccoglie e condivide dati online sulle emissioni radioattive attraverso la piattaforma Safecast.

bGeigie è un contatore Geiger, un marchingegno per rilevare le radiazioni. L’oggetto è «grande quanto la vostra mano aperta, e alto quanto la vostra mano con le dita chiuse», spiega Moross. Potrebbe sembrare una pochette, o meglio una di quelle piccole confezioni di plastica, dal fondo nero e trasparenti sopra, che contengono i pomodori datterini gourmet oppure il sushi. In effetti, per concepirne la forma i suoi inventori si sono ispirati al vassoio usato in Giappone per portarsi il pranzo da casa: il bentō. Dalla tipica schiscietta giapponese, ecco la forma del Bentō-Geiger, il bGeigie. Costa circa 570 euro (650 dollari) lo si ordina dal sito online, arriva in un kit e lo si assembla a casa propria. Si diventa pronti così per andarsene attorno a rilevare radiazioni con il proprio contatore tascabile. Ogni 5 secondi il bGeigie salva i dati raccolti sulla propria memory card. Tornati a casa, si infila la memory nel pc, come per scaricare le fotografie, e i dati sono pronti per essere condivisi online sul sito di Safecast.

Safecast è invece il nome della piattaforma che raccoglie questi dati, ma soprattutto è l’organizzazione che ha sviluppato il bGeigie e il sistema di condivisione, organizzazione di cui Brown e Moross sono parte operativa. Come recita l’autobiografia del sito, «Safecast è un’organizzazione internazionale, basata sul contributo di volontari e devota a una scienza aperta e partecipata, per l’ambiente». Safecast nasce il giorno dopo il disastro di Fukushima. In quei giorni, il governo nipponico e la compagnia TEPCO (Tokyo Electric Power Company), che gestiva la centrale, si mostrarono reticenti nel diffondere notizie e dati su quanto stava accadendo dentro i reattori e nella città. Per rispondere all’esigenza dei cittadini di avere maggior chiarezza, Pieter Franken, oggi direttore di Safecast, Joi Ito, direttore del MIT-MediaLab e l’imprenditore Sean Bonner ebbero l’idea di creare una piattaforma online dove raccogliere e condividere i dati sulle radiazioni che arrivavano dalle università e dal governo. Ma il numero di dati disponibili era così scarso da scoraggiare qualsiasi buon esito. Avrebbe potuto funzionare soltanto se i privati possessori di contatori Geiger in Giappone avessero cominciato a condividere le loro rilevazioni in internet.

Era quello che stava facendo Moross, ingegnere a Tsukuba. «Avevo raccolto misurazioni col mio contatore Geiger, all’epoca del disastro, e avevo cominciato a condividerle su Twitter. Anche altri lo facevano. Così sono entrato in contatto con Safecast». L’idea divenne presto quella di dare contatori Geiger a cittadini volontari, preoccupati per le radiazioni a casa propria. Il mercato di contatori era esaurito e comprarli e distribuirli era fuori portata. Decisero di produrre un Geiger per conto loro, che potesse essere portatile, in macchina per esempio «allo stesso modo con cui funziona StreetView». I volontari lo prendevano con sé e poi lo restituivano. Ma il tentativo non ebbe successo. Andava costruito un kit, un kit acquistabile e da assemblare e di cui il volontario divenisse proprietario. Nacque così l’odierno bGeige, «qualcosa che non è strettamente un prodotto, qualcosa che puoi comprare. Devi prendere le parti del kit e costruirle. È qualcosa che abbiamo fatto deliberatamente perché vogliamo che le persone siano coinvolte». Rapidamente Safecast ha avuto successo in Giappone e oggi l’organizzazione raccoglie volontari che da tutto il mondo inviano i loro dati, visualizzabili sulle mappe del sito.

I dati raccolti da Safecast in Giappone, attorno alla centrale (Safecast.org).

Azby, il designer, la chiama crowd manifacturing, quest’idea che ciascuno lo assembli da sé. E crowd mapping è la condivisione dei dati online. A osservare le mappe, molte sono le rilevazioni che arrivano dal Nord America e dall’Europa. Avvicinandosi con lo zoom e studiando i percorsi tortuosi dei bGeige in borsa ai volontari, si intuisce come le aree più battute siano quelle attorno alle centrali nucleari, come nella zona francese tra Marsiglia e Avignone. C’è persino una strisciolina che percorre Longyebargyen, sull’isola di Svalbard nel mar di Groenlandia. E un tizio si è preso in carico l’intera Islanda, come racconta Azby: «ha viaggiato in macchina per cinque giorni, probabilmente in vacanza. Ha fatto il giro dell’Islanda, monitorandola tutta. Direi che anche una singola persona può coprire abbastanza spazio».

Ma, allargando l’occhio dall’isola ai due emisferi, è impietosa l’assenza di dati dall’emisfero sud: in Mozambico bGeige costerebbe quanto il salario medio mensile lordo di un ingegnere (Wageindicator foundation, 2016). Mancano anche i dati di Russia e Cina, dove «le società o i governi non appoggiano questo modo di procedere», cioè quest’approccio alla partecipazione della cittadinanza, ancor prima che alla condivisione del dato col pubblico.

Il bGeigie, a guardarlo meglio nella grande mano di Moross, vuole essere metafora proprio di trasparenza: i circuiti del contatore, i chip, e il piccolo display che dà la misura delle radiazioni sono tutti in vista, dentro la scatola antipioggia, di plastica trasparente. Brown, laureato in scultura e architettura a Yale e studioso dell’estetica e della funzionalità dell’architettura giapponese (Il genio della carpenteria giapponese è uno dei titoli di cui è autore), insiste sull’importanza del design: «è un oggetto di design sociale». L’idea minimale di mostrare il contenuto, come fece Renzo Piano con i tubi del Centre Pompidou, è resa estetica e funzionale con la scelta della plastica trasparente. Sarà per questo che il piccolo contatore ha vinto il Good Design Award 2013 dell’European Centre for Architecture Art Design and Urban Studies ed è stato esposto nella galleria londinese Belmacz, durante la mostra Bodikon.

bGeigie nell’esposizione Bodikon (Copyright Belmacz and Artists).

«Ma – aggiunge Brown – parte di questo design sociale è anche la costruzione di una comunità, di gruppi online, di persone capaci di vedere i propri dati. Il fattore umano del design è almeno importante quanto il design del software e dell’hardware». La costruzione della comunità di volontari che cercano e condividono dati è un esempio di quella che viene chiamata citizen scienceship, la scienza partecipata e aperta, obiettivo di Safecast. Ma, di fronte a disastri come quello di Fukushima, la reazione dei governi e delle società poche volte somiglia a quella della partecipazione e condivisione dei dati.

In seguito alla diffusione di rilevazioni non ufficiali, come quelle twittate da Joe, il governo giapponese nell’estate del 2011 annunciava che avrebbe perseguito chi avesse pubblicato dati non ufficiali, indipendentemente dalla loro accuratezza. Questo non accadde, ma i rapporti di Safecast col governo, da principio, non furono facili. «Il governo nipponico ha chiaramente fallito nel dare informazioni credibili ai cittadini» afferma Azby con sicurezza. Assieme a lui, Joe racconta di quando collaboravano con l’amministrazione locale di Minami Soma – superate le prime diffidenze. Il progetto era quello di disporre sensori sulle cassette della posta, in ogni strada. Durante la negoziazione, narra Joe, «ci dissero: se trovate una zona in cui le radiazioni sono alte, dobbiamo essere avvisati prima, perché vogliamo preparare una risposta prima che i dati escano». Loro rifiutarono. «Cosa dovevamo aspettare? Che sistemassero le misure, o magari le censurassero? Alla fine hanno accettato loro». Azby sembra essere più accomodante quando commenta, dicendo che «è una tendenza difensiva naturale, un tratto culturale». Ma, aggiunge che «ancora più difficile diventa lavorare con le compagnie, specialmente dell’industria energetica. È difficile prendere misurazioni, dicono che ti devi fidare di loro. Le agenzie (nazionali, ndr) di controllo si suppone che controllino, ma talvolta finisce che aiutino l’industria».

Oggi però – dicono – in Giappone le amministrazioni locali sono molto collaborative. E nel 2014 Joe e Azby sono stati invitati a Vienna, per parlare alla conferenza internazionale di esperti dell’IAEA, l’ “Agenzia internazionale per l’energia atomica” delle Nazioni Unite. Hanno dibattuto a lungo se partecipare, temendo di compromettere la loro indipendenza e temendo la possibilità che l’IAEA volesse servirsi di loro come specchietto per le allodole. Ma hanno infine deciso di accettare e di parlare a un uditorio di esperti scettici. Dopo il loro sudato intervento, raccontano, un delegato finlandese ha rotto il silenzio, lodandoli ed è seguito l’applauso. «Abbiamo percepito che forse l’opinione stava cambiando».

Safecast – ci tengono a sottolineare – si dichiara né pro né contro il nucleare e si fa vanto di indipendenza: «siamo solo interessati in buoni dati, che rendano più facile il dialogo ed estendano la nostra rete. Apertura, non ideologia» azzarda Brown. Ai loro workshop partecipano antinuclearisti e non, o chi raccoglie dati col bGeige lo fa per le più diverse ragioni: appassionati di elettronica, persone che vogliono monitorare il proprio territorio, scuole. Insistono: «a Fukushima questo ha cambiato l’attitudine delle persone, alzando lo standard di quello che fanno: al posto di portare argomenti soltanto emotivi, danno basi oggettive alle loro posizioni».

Azby dice che «dà potere alle persone di fare cose che non pensavano di saper fare, in termini di difesa dell’ambiente». Joe rincara, aggiungendo che «ora è impossibile per governi e industrie tacere i dati finché le persone non sono “pronte”». Perché esiste una convenzione che difende queste persone, la convenzione di Aarhus, che sancisce tre diritti per i cittadini: «il diritto a essere informati, il diritto di partecipare alle decisioni, il diritto di avere giustizia se gli altri diritti non sono rispettati. 40 Paesi l’hanno firmata. Ovviamente gli Stati Uniti non sono interessati» sorride beffardo Azby. All’insistente questione se tutto questo non costituisca già una scelta politica, di campo, ribadiscono come all’unisono che «sì, è una scelta politica ma è la politica della trasparenza».

bGeigie da un’immagine del sito (Safecast).

A dire il vero il bGeige, per chi non lo conosce, sembra un piccolo ordigno. «Negli Stati Uniti siamo forse considerati dei radicali, nel senso che sosteniamo i diritti della gente» dice Brown. Prima di andarsene, avvicinano il bGeigie che era acceso. Produce un rumore sommesso, somiglia al crepitio di braci.


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