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Chi ha paura dei cattivi scienziati?

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Nella prefazione al saggio divulgativo di Enrico Bucci sulle frodi scientifiche (Bucci 2015), la ricercatrice e senatrice Elena Cattaneo prende all’inizio le distanze dal titolo, dicendo che può ingannare, e conclude affermando che non esistono cattivi scienziati: «Semplicemente costoro non sono scienziati».  Giustamente però assolve l’autore, osservando che il suo libro è in realtà una manifestazione d’amore per la Scienza, quella con la maiuscola.

I titoli, si sa, devono fare colpo e competere in un mercato editoriale asfittico e affollato (paradossalmente i due termini non sono in contraddizione) per conquistare l’attenzione di un pubblico poco appassionato a temi complicati come la qualità della ricerca scientifica. Soprattutto in Italia.

I guasti della competizione universale

Anche i ricercatori di professione, in tutto il mondo, devono competere tra loro e con altri settori della società, per ottenere attenzione, fiducia e finanziamenti. La competizione è ormai la legge universale delle attività umane a livello globale, senza alcuna eccezione: persino le religioni competono. Ed è l’analisi dei guasti che la competizione può provocare il maggior pregio, ma anche il limite del libro. Vediamo come si svolge il ragionamento dell’autore.

Il libro comincia con un curioso esperimento mentale: perché crediamo agli elettricisti? Perché sappiamo che agiscono sulla base di un corpo di conoscenze sperimentali coerenti, facilmente replicabili. Altri campi del sapere scientifico però non sono altrettanto abbordabili, e la fiducia del pubblico nei ricercatori deve basarsi su quelle che Bucci chiama “certificazioni indirette”, come titoli di studio e soprattutto pubblicazioni scientifiche.

Come si imbrogliano le carte

Ma le carte si possono imbrogliare, e per difendersi bisogna sapere come si fa: conoscere il peccato. E anche i peccatori. Bucci cita molti aneddoti, del passato e recenti, per illustrare i vari di tipi di cattiva condotta: fabbricazione di dati, falsificazione e plagio.

Raccontare le storie di frodi clamorose, come quelle dello psicologo sociale Diederik Stapel o dello “Scienziato supremo della Corea del Sud”, è sempre un buon modo per suscitare e mantenere l’interesse del lettore. Ma in questo saggio le storie sono inquadrate in una tesi forte: che le frodi non sono casi sporadici, ma il risultato inevitabile di un sistema che da una parte premia il successo con potere e denaro e dall’altra presenta falle vistose nei meccanismi di valutazione (peer review) e di selezione.

L’ultimo tassello del ragionamento è un tentativo di fare una stima, di minima e di massima, sull’estensione del disastro. Qui l’autore, ricercatore lui stesso, ha un asso nella manica, appartenendo a un gruppo che ha sviluppato un “segugio elettronico”, un software per setacciare la letteratura scientifica alla caccia di immagini false (foto al microscopio, scanner digitali eccetera). Incrociando i propri dati, con quelli di diversi altri gruppi attivi su questo fronte, e con le risposte a survey nella comunità scientifica, Bucci arriva a stimare che dal 2,5 a oltre il 10 per cento dei 9 milioni di ricercatori attivi nel mondo abbia pubblicato nel 2014 qualche dato manipolato.

Poche mele marce?

Non è difficile immaginare quale colpo mortale possa derivare da una stima simile alla fiducia della società nella scienza. E si comprende anche il riflesso “negazionista” (Caplan 2015) di parte del mondo accademico, che si aggrappa al luogo comune delle “poche mele marce”, sostiene l’opportunità che i panni sporchi si lavino in casa e proclama la fiducia nella capacità di autocorrezione della scienza.

Bucci, come Caplan, non è d’accordo su questa linea, ma il suo saggio si conclude comunque con una visione ottimista, giocata su una lunga analogia con il sistema immunitario.

Alla fine sarà davvero la comunità scientifica a guarire se stessa? Per esserne certi bisognerebbe riconoscere la natura profonda del male, di cui le frodi scientifiche sono solo uno dei sintomi, come lo sono per esempio i reporting bias denunciati dalla Cochrane Collaboration o i missing data contestati dall’iniziativa internazionale AllTrials.

Ricerca e profitto

In meno di mezzo secolo l’impresa scientifica ha cessato di essere quella attività aperta, disinteressata e collaborativa che era descritta (e prescritta) nell’opera del sociologo della scienza Robert Merton, al punto che di quelle caratteristiche non ci si ricorda neanche più. Ed è diventata un’attività svolta prevalentemente a scopo di profitto, personale o aziendale, tutelato dal segreto, dai brevetti e dalla competizione. Solo pochi decenni fa Albert Sabin rifiutò di brevettare il suo vaccino contro la poliomielite.

Tutte le risposte “immunitarie” contro le cattive condotte dei ricercatori potranno avere un risultato solo parziale e temporaneo sino a che non si troverà il modo di ricacciare il profitto dalle motivazioni della ricerca.

Pubblicato sulla rivista The future of science and ethics, n. 1

Bibliografia
Bucci Enrico (2015), Cattivi scienziati - La frode nella ricerca scientifica, Torino, Add editore.
Caplan Arthur L. (2015) The problem of pubblication-pollution denialism, Mayo Clinic Proceedings, 90, 565-566


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