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Il futuro del cinema ha radici lontane

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“L’immagine elettronica lo conferma: una civiltà in preda all’incubo della memoria visiva non ha più bisogno del cinema” osservava Paolo Cherchi Usai nel 1999 (L’ultimo spettatore. Sulla distruzione del cinema), constatando  l’inesorabile destino di estinzione della pellicola ad opera dei supporti digitali. Il processo negli ultimi anni è apparso irreversibile e il miglioramento della qualità dell’alta definizione, unito alle nuove frontiere aperte dal 3D, ci invita e obbliga a riconsiderare l’intero campo dei problemi legati alla visione cinematografica e ai rapporti tra l’evoluzione tecnologica e la moltiplicazione dei modi e canali della fruizione dei prodotti filmici. E’ come se in base a una legge darwiniana alla specie dell’Homo cinematographicus ne fosse subentrata una dotata di nuovi smisurati poteri visionari, capace di passare con estrema facilità da un mezzo all’altro e di non utilizzare più la sala come luogo per eccellenza della sua navigazione quotidiana nell’iconosfera.

In effetti nel momento in cui l’uomo cinematografico scopre la metemorfosi in atto della sua specie scopre anche che la sala, indicata per tutto il Novecento nel suo passaporto come il luogo di residenza principale, sta lasciando il posto a un processo di distopia e a una definizione di cittadinanza e residenza dai confini più allargati. Ma anche più incerti e indefiniti. Dopo un secolo di vita, dunque, la sottospecie novecentesca degli icononauti sembra promossa a testimone di una civiltà a cui è sopravvissuta subendo una mutazione genetica, approdando in nuovi territori dalle caratteristiche frammentate e dai confini mutevoli, conservandone alcuni geni da seminare nei nuovi territori da colonizzare. Se la sala cinematografica e gli spazi comuni della visione dei secoli precedenti davano l’impressione di costituirsi a immagine e somiglianza della polis, gli inediti orizzonti del visibile, le connessioni infinite della rete, hanno di fatto creato nuovi habitat, soprattutto per la visione individuale e spazi topologici e condizioni che hanno a che fare con le forme più complesse delle megalopoli, delle cosmogonie, nei confronti delle quali la sensazione dominante è quella del rischio e della percezione costante di naufragio di una visione disancorata e fluttuante in dimensioni che non hanno più inizio né fine.

Tutta la riflessione teorica viene rimescolata e, oltre ad affrontare uno scenario  completamente differente, impone di  ripensare anche al passato con ottiche e strumenti inediti, presi a prestito da nuove discipline. In un saggio del 2008 (In piena luce) sui nuovi spettatori cinematografici, Gabriele Pedullà osservava che “le trasformazioni della tecnologia e dei consumi degli spettatori rendono di colpo obsoleti interrogativi che per decenni hanno tenuto impegnati intellettuali e cinefili”. Interrogativi che portavano molti a rimpiangere la sala rispetto alle attuali possibilità di vedere il cinema sullo schermo del televisore, del computer o sul palmare, o scaricarlo dalla rete, e non impediscono di pensare alla nascita di una nuova cinefilia senza cinema.

Pensiamo solo, prima ancora di avanzare nuove ipotesi storiografiche, o indicare nuove direzioni possibili di ricerca, alle semplici e indefinite possibilità, rispetto al passato, dell’accesso odierno  in rete a tutta la memoria cinematografica digitalizzata. Chi come me è andato dagli anni settanta alla ricerca dei film italiani negli archivi di tutto il mondo può testimoniare che fino a poco più di un paio di decenni fa la memoria in celluloide era o distrutta dai produttori, o gelosamente conservata dai collezionisti privati e dalle cineteche, che blindavano i loro patrimoni, trincerandosi dietro al pericolo della pellicola infiammabile, rendendoli in pratica inaccessibili. Poter vedere alcuni film muti conservati in alcune cineteche italiane era impresa praticamente sovrumana.

la costruzione dell'immaginario

Le cose non sono andate e non stanno comunque andando tutte nella direzione del collasso e del processo teleologico di morte della civiltà della pellicola: potrebbe valere la pena, prima di osservare lo stato delle cose al presente, in questa fase di  grande mutamento, riconsiderare il campo di forze e gli elementi che determinano il carattere e la natura del cinema, includendo, in un rapido montaggio di momenti emblematici della storia del cinema, anche una riflessione d’insieme sulle dinamiche di riposizionamento del corpo dello spettatore rispetto allo schermo e alle figure che lo animano e alle dinamiche di evoluzione tecnologica e linguistica del cinema. Ancora molto da studiare il ruolo del cinema nello sviluppo delle capacità cognitive, della formazione del giudizio, della conoscenza e dell’orientamento nella visione del mondo. Se ne potrebbero così ripercorrere le tappe più significative, partendo dai protospettatori e dalle prime proiezioni dei fratelli Lumière e si potrebbe in pari tempo cercare di studiare e misurare le dinamiche emotive spettatoriali assieme agli spostamenti e accoppiamenti progressivi dei corpi reali e dei corpi fantasmatici, vedendo le possibilità di applicazione al cinema delle ricerche sui neuroni specchio di Giacomo Rizzolatti.

Nell’osservare le azioni sullo schermo, nel seguirne la scomposizione analitica sia nei gesti che nei sentimenti, lo spettatore non solo ritrova azioni ed emozioni conosciute, attivando una serie di circuiti neurali comuni a tutti gli spettatori che condividono in quel momento la sua esperienza, ma ne acquisisce di nuove, arricchisce il suo patrimonio di nuovi comportamenti e modelli comunicativi. Se da una parte lo schermo può offrire, dagli anni dieci, il corpo mistico di divi e dive, scatenando emozioni e reazioni fisiche collettive a catena (si pensi ai pubblici che osservano i movimenti della danza ad altissima carica erotica di Asta Nielsen nel film del 1911 L’abisso) aprendo nuovi riti di celebrazione e comunione per le folle di catecumeni del nuovo tipo di spettacolo, dall’altro fin dall’inizio tende a risucchiare sia il corpo che l’anima dello spettatore, a trasportarlo nell’azione grazie a una serie di processi che gli fanno rapidamente superare il confine del semplice piacere scopico e voyeuristico, spingendolo sempre più verso processi identificativi e di vero e proprio coinvolgimento fisico, mimetico, oltre che emotivo, ideale e non ultimo ideologico.

Grazie alla macchina cinematografica l’uomo sembra prima di tutto aver assunto di colpo poteri paradivini: all’inizio ha catturato e ricreato il mondo e da un certo momento concentrando tutti i suoi sforzi è riuscito a creare, mescolando fango e polvere di stelle la nuova Eva, già immaginata nel romanzo omonimo di Villiers de L’Isle –Adam fin dal 1886. Questa nuova Eva ha fatto assaporare ai primi pubblici maschili e femminili i piaceri di molti frutti proibiti nei nuovi Paradisi dei poveri, in sale che si chiamano da subito Eden, Nirvana, Excelsior, Cinema Paradiso... ma anche Palladium Lucifer.

Al contributo del cinema alla costruzione architettonica dell’immaginario dell’ uomo del Novecento, alle caratteristiche della macchina desiderante, alle pulsioni erotiche, ma anche alle tipologie dei pubblici, alle pratiche spettatoriali, alle risposte di determinati gruppi, sono stati negli ultimi decenni dedicati studi che sempre più hanno spostato l’attenzione dallo schermo alla platea e che hanno cercato di analizzare fenomeni diversi dal punto di vista socio-semiotico, dei gender studies, dei cultural studies e diverse condizioni dello spectare, servendosi di molti strumenti, non ultimi quelli psicanalitici.

Se Andrea Zanzotto nel suo Filò del 1976 si dichiarava spaventato, ma anche trascinato dal cinema “parché ‘l zharvèl al ne impignis de bòcoi....” (“perchè ci riempie il cervello di bolle e boccioli”) e anche ci fa a pezzi “ ‘l ne straòlta, al ghe roba ‘l so proprio DNA al gròp che é pi scondést de noaltri stessi” ( “ci stravolge, ruba il proprio DNA al grumo più nascosto di noi stessi”) è proprio grazie alla suggestione di alcuni suoi versi che è possibile ancora oggi vedere e cercare di misurare come il mutamento delle misure di scala delle figure sullo schermo, unito a vari altri processi, non ultimo quelli attivati dai neuroni specchio, ci possa portare a credere che una serie di forze muovono il corpo nello spettatore cinematografico in base a relazioni molto precise con l’azione che si svolge sullo schermo, con la grandezza delle figure rappresentate, con la profondità di campo, con gli effetti tridimensionali ottenuti grazie al 3D.

Corpi, neuroni, cinema

Tra le tante storie del cinema che si possono ancora raccontare, cercando di stabilire nuove connessioni e seguendo itinerari meno battuti, mi sembra che valga la pena proprio di interrogarsi sui mutamenti dei rapporti tra i corpi degli spettatori e le dinamiche dei circuiti neurali e i corpi e le realtà e le emozioni rappresentate  sullo schermo. Ne fornirò pochissimi esempi relativi al cosiddetto “cinema primitivo”. Se fin dalla serata del 28 dicembre 1895 con cui si inaugura la storia del cinema, i Lumière, che usano  il proprio cinématographe come una variante della pittura da cavalletto degli impressionisti, danno la sensazione ai 33 spettatori in sala di riuscire, con le riprese del treno che arriva nella stazione della Ciotat, a produrre uno shock fisico, oltre che emotivo, a sfondare la quarta parete e a far irrompere le immagini nello spazio reale della sala, pochi anni dopo con Mèliès del Voyage dans la lune nel 1902 si attiva un processo eguale e contrario. Il corpo sembra perdere il suo peso e si ocularizza identificandosi con la macchina da presa, che segue l’astronave fino a schiantarsi nell’occhio della Luna antropomorfa. Poco tempo dopo nasce il cinema italiano e Filoteo Alberini ha un’intuizione ulteriore nel rappresentare nel 1905 con La presa di Roma la nascita della nazione attraverso la ricostruzione della presa di Porta Pia del 1870. Per attivare al massimo i processi di identificazione Alberini fa stendere lo schermo proprio di fronte a dove era stata praticata la breccia e proietta il film in anteprima esattamente 35 anni dopo. A giudicare dalla “commossa partecipazione” di migliaia e migliaia di spettatori si direbbe che la folla, riunita in via Nomentana ad assistere alle proiezioni non avverta affatto la presenza dello schermo steso proprio di fronte alla breccia di Porta Pia e provi come soggetto unico quella straordinaria condizione di perdita dei confini dell’Io, di viaggio all’indietro nel tempo  e di partecipazione diretta all’evento assieme alla possibilità di marciare e combattere a fianco dei bersaglieri e di celebrare al loro fianco l’apoteosi della nascita dello Stato Unitario. In quel momento, ad esempio, il corpo di un piccolo gruppo di spettatori prova la sensazione esaltante, grazie allo schermo, di sentirsi parte del grande corpo “materno” della patria.

Poco dopo arriva Griffith e nei suoi  oltre quattrocento one-reels fissa le regole, le perfeziona e regala a tutto il cinema successivo, quasi in forma di canone, il meccanismo di coinvolgimento dello spettatore con il montaggio parallelo delle azioni e la loro frantumazione temporale. Ejzenstejn e il cinema russo degli anni venti ne ereditano le regole e  ne allargano  le funzioni e le possibilità combinatorie.

La scoperta del primo piano e della possibilità di isolare il volto come in un’icona laica o le sue parti, gli occhi le labbra spingono le labbra dello spettatore a spingersi fino al bordo dello schermo per accogliere come una particola “il corpo e il sangue “ di Lyda Borelli, Francesca Bertini, Greta Garbo, Rodolfo Valentino e di centinaia di altre divinità dello schermo. Ma è anche il corpo che desidera avvolgersi nello schermo come in un lenzuolo e mescolarsi e confondersi con il corpo dei divi amati. Con l’espressionismo e i film dell’orrore degli anni trenta saranno i mostri a uscire dallo schermo e a ghermire lo spettatore, a paralizzarlo nella sua sedia e liberarne i fantasmi dell’inconscio. La scena del taglio dell’occhio che apre Un chien andalou di Buñuel e Dalì mi sembra l’esempio più significativo di ottenenere con un’immagine un effetto sinestetico che colpisce i cinque sensi e spinge lo spettatore a dischiudere le dimensioni dell’inconscio. Ma i traumi e le paure dello schermo saranno una sorta di farmaco benefico rispetto alle paure della realtà.

Questo processo è analizzabile lungo la storia del cinema scomponendo le diverse azioni rappresentate e confrontandole con la miriade di testimonianze spettatoriali reperibili nelle fonti più disparate che raccontano  le corrispondenze emotive tra azione rappresentata e reazioni individuali e collettive della platea. Un esempio di perfetta sintonizzazione tra schermo e platea dal racconto di una proiezione domenicale ad Asiago di un film di Tom Mix nel romanzo Le stagioni di Giacomo. Qui è tutto lo schermo che richiama tutta la platea e produce un rispecchiamento perfetto di azioni e reazioni emotive: “Con la bocca aperta, gli occhi fissi, gesticolando e battendo i piedi in sintonia con gli zoccoli dei cavalli i ragazzi seguivano le aventure di Tom Mix che alla fine arrivava in tempo per liberare la bella ragazza sequestrata dai banditi. Quando comparve l’ultima corsa dell’inseguimento erano tutti in piedi a gridare: “Corri! Fai presto!Ti scappano! Corri, corri. Con Tom Mix correvano tutti i ragazzi”.

Ognuno di noi può avere una galleria di scene in cui ha sentito una corrispondenza, una reazione completa di smaterializzazione, di perdita dei confini dell’Io e una specie di traslazione del proprio corpo verso e dentro lo schermo. Questo può essere successo sia con i film del neorealismo (ancor oggi, dopo infinite visioni, muovo la mano alla ricerca di quella del piccolo Bruno del finale di Ladri di biciclette), che con la Nouvelle Vague, con i film di Hitchcock (da La finestra sul cortile a Psycho, in cui lo spettatore prende il posto della vittima, Marion, nella scena della doccia) a Kubrick di 2001 Odissea nello spazio, nelle scene sull’astronave in cui si perde il senso di gravità, o nei  vagabondaggi nell’Overlook Hotel di Shining del piccolo Danny Torrence.

Ma il cinema non è morto

L’invenzione dell’Imax (che per i costi non ha dato i risultati sperati) e quella della realtà virtuale sono ulteriori tappe fondamentali nelle dinamiche dei rapporti tra corpo dello spettatore sua progressiva ibridazione nello spazio dello schermo. In questo senso il 3 D potrebbe far pensare a una specie di passo indietro rispetto alle frontiere aperte dalle invenzioni appena citate. Di fatto, però, la macchina cinema, grazie anche al 3D e al successo di film come Avatar, è riuscita a capovolgere, negli ultimi tempi, le profezie che la davano per destinata ad essere delocalizzata ovunque, eccetto che in sala, a essere soppiantata dalla televisione e da altre tecnologie, a esercitare ormai un ruolo secondario sull’immaginazione collettiva. Grazie alla prova di forza del film di James Cameron, il cinema ha dato l’impressione di poter far rivivere la sala e di voler riaffermare d’essere ancora l’arte del nuovo millennio, la forma espressiva più capace di racchiudere lo spirito di un’epoca e poter ricreare, in uno spazio circoscritto ma dilatabile all’infinito, tutti i tempi, passati e futuri. E insieme di continuare a vivere come fucina di sperimentazione e luogo di memoria, di riuscire a raccontare la storia nel suo aspetto pluridimensionale: materiale e immateriale, evenemenziale e immaginativa, pubblica e privata, l’utopia e il disincanto, le dimensioni plurime del tempo, la grande Storia e quella invisibile, le metamorfosi della Memoria, che ti restituisce l’importanza comunicativa del gesto, la polisemia dello sguardo e che attiva di nuovo in modo potente e quasi empiricamente misurabile i neuroni specchio dello spettatore.

Negli ultimi tempi il cinema, più ancora dello spiegamento dei nuovi poteri tecnologici, sembra riaffermare con successo i propri poteri immaginativi di creatore di Mondi. Non solo non vengono recisi i legami con la tradizione, ma ci si proietta nel futuro con piena consapevolezza d’un enorme e fecondo patrimonio comune. L’energia emanata da Avatar, anziché cannibalizzare e coventrizzare una cinematografia appartenente a un civiltà meno avanzata, sembra agire come una fleboclisi sul sistema agonizzante, ripopolare le sale, toccare in modo benefico anche film che con quest’opera nulla hanno in comune.

Il cinema è tornato anche in sala, ed è riuscito a riscoprire la propria capacità di ricreare e regalare emozioni e senso di meraviglia. Quelle emozioni che accompagnavano le prime folle di spettatori di fronte al Voyage dans la lune di Méliès nel 1902 facendo in modo che il loro corpo, grazie ad un processo di bilocazione, senza abbondonare la sedia o la poltrona venisse imbarcato sul proiettile-astronave e proiettato direttamente nell’ occhio della luna, ossia in un futuro ancora fiduciosamente aperto.


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