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Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia

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La discussione sull’ammontare delle tasse universitarie tocca vari punti politici e strategici di primo piano, dal ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, alla missione stessa dell’università; per questo è necessario che ci sia un dibattito approfondito su questo argomento. Andrea Ichino ha recentemente riportato i punti salienti di un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Pietro Ichino - Partito Democratico) in cui si propone di aumentare le tasse universitarie ed introdurre un sistema di prestiti sul modello recentemente adottato in Inghilterra. Secondo i proponenti, le ragioni a favore dell’aumento delle tasse universitarie sono: (i) maggiori tasse implicano maggiore qualità e (ii) maggiori tasse con prestiti d’onore implicano una maggiore giustizia sociale. Prima entrare nell’analisi del merito della proposta è necessario fare chiarezza su alcune delle assunzioni su cui si basa; nelle parole di Ichino: «dare ai poveri un'università gratis ma di pessima qualità è una truffa».

(1) L’università italiana non è gratuita. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Come illustrato in Figura 1, tra le 14 nazioni considerate nel biennio 2006/07, l'Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l'82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei.

FIGURA 1
Relationships between average tuition fees charged by public institutions and proportion of students who benefit from public loans AND/OR scholarships/grants in tertiary-type A education (academic year 2006-07) For full-time national students, in USD, converted using PPPs

tase universitarie oecd
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1. Average tuition fees from USD 179 to USD 1 206 for university programmes dependent from the Ministry of Education.
2. Year of reference 2007-08. Source: OECD. Tables B5.1 and B5.2. See Annex 3 for notes (www.oecd.org/edu/eag2010).


(2) L’Università italiana non è di pessima qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto al mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o l’H-index globale l’Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni. Considerando che l’investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL, è minore dei paesi che ci precedono (Francia, Inghilterra oltre che Stati Uniti) possiamo concludere che l’efficienza del sistema universitario e della ricerca italiano è discreto (il che non significa che non sia improrogabile intervenire per migliorarlo). Questa situazione è spesso chiamata “paradosso italiano”. D’altra parte, per interpretare correttamente l’informazione contenuta nelle classifiche internazionali degli atenei, spesso citate a dimostrazione della mediocrità del sistema universitario italiano, e per identificare le sue criticità, è necessario: (i) considerare separatamente i diversi indicatori in base ai quali queste sono costruite, (ii) considerare anche le classifiche scorporate in base ai diversi campi disciplinari e (iii) conteggiare degli indicatori globali come ad esempio il numero di atenei di ogni paese inclusi nelle prime 500 posizioni. Uno studio dettagliato si trova nel libro di Marino Regini e collaboratori (Donzelli, 2009) in cui si conclude che “il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti”.

(i) Tasse più alte equivale a maggiore qualità? Chi scrive è convinto che la qualità di un ateneo non può essere semplicemente misurata dal ranking nelle classifiche internazionali. Tuttavia se seguiamo questa maniera di valutazione, troppo spesso superficialmente usata, troviamo che Italia le università in cui le rette sono più alte, la Bocconi e la Luiss, non compaiono tra le prime 500 posizioni in nessuna classifica internazionale, a differenza di un discreto numero università statali, in cui le rette sono notevolmente più basse. Inoltre, guardando al caso del Regno Unito, nessuno studio dimostra che la qualità dell'insegnamento e della ricerca siano aumentate dal 1998 (anno in cui sono state introdotte le tasse universitarie) ad oggi proporzionalmente alle tasse universitarie. Dunque, non è vero che le università pubbliche italiane siano quasi gratuite, che la qualità sia infima e che maggiori tasse comportino maggiore qualità. Consideriamo ora l’altro argomento che, secondo gli autori, giustificherebbe la proposta dell’innalzamento delle tasse e dei prestiti d’onore, quello della giustizia sociale, ovvero evitare che:

(ii) “Siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”. In pratica gli autori della proposta vorrebbero evitare che qualcuno (i poveri) paghi per qualcosa di cui non usufruisce direttamente ma che anzi va a vantaggio di altri (i ricchi). Questo, ad esempio, già avviene con la sanità quando si pagano le tasse ma si gode di buona salute, condizione che però non dipende dal censo. D’altra parte, secondo gli autori, l’istruzione va vista come un investimento personale finalizzato all'incremento del reddito a vantaggio del singolo e non della collettività; per questo motivo sarebbe socialmente giusto che ognuno paghi di tasca propria, in particolare perché chi si avvantaggia maggiormente dell’istruzione proviene generalmente da una famiglia più abbiente: discutiamo ora questo aspetto della proposta. La premessa del ragionamento di Ichino è puramente politica:

«E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altri sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.»

Questa affermazione non è argomentata, e infatti non è argomentabile in alcun modo, piuttosto è una convinzione politica e ideologica dell’autore che è del tutto lecito non condividere: ad esempio, chi scrive pensa che i soldi pubblici possano essere spesi meglio di quanto ha fatto l’attuale governo, sia per quantità che per qualità dell’investimento nell’università e nella ricerca, così come è realisticamente possibile fare una lotta all’evasione più efficace, ecc. Inoltre bisogna ricordare che l’Italia è sempre nelle ultime posizioni delle statistiche internazionali per spesa nella formazione universitaria e nulla vieta di rendere questa spesa dello stesso ordine, ad esempio, di un paese come la Francia. Ma lasciamo da parte queste considerazioni, che ricadono nel campo della volontà e della strategia politica, e passiamo ora all’analisi della proposta, che investe temi fondamentali come la tassazione e la giustizia sociale.

Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, il cui resto lo pagano tutti gli altri cittadini, anche chi l’università non la fa, tramite la fiscalità generale. L’argomento secondo il quale in un sistema pubblico le famiglie a basso reddito pagano l’università ai ricchi non considera il fatto che le aliquote fiscali crescono con il reddito, e andrebbe esteso a tutte le attività finanziate dallo Stato ma fruite in modo differenziato a seconda del reddito. In teoria, l’imposta progressiva sul reddito insieme con la tassa di successione dovrebbero garantire un’equa ridistribuzione del reddito dando “pari opportunità iniziali” a tutti in quanto, in questo modo, chi è più ricco contribuisce più degli altri a pagare i servizi pubblici: una maniera di equilibrare maggiormente il sistema potrebbe essere quella di abbassare le aliquote dei ceti meno abbienti. Dunque non è vero che nel sistema attuale i poveri pagano l’università ai ricchi; il problema è casomai quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l’accesso all’istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Il sistema proposto di tasse e prestiti è funzionale a questo scopo?

Per prima cosa è necessario ricordare che quando si considera la suddivisione della popolazione in fasce di reddito ci s’imbatte nel problema dell’evasione fiscale, che affligge l’Italia nel suo complesso. A questo proposito è sufficiente notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. Questa situazione ci ricorda l’arbitrarietà nell’identificazione, da un punto di vista fiscale, delle famiglie più abbienti. E’ ovvio che una seria politica di lotta all’evasione fiscale è indispensabile per qualsiasi decisione lo Stato debba prendere, compreso il sistema dei prestiti d’onore. Non è forse un caso che nei paesi dove questo sistema è applicato (Stati Uniti, Inghilterra) non ci sono dei problemi d’evasione così strutturali come in Italia. Dunque, una seria lotta all’evasione fiscale non solo potrebbe fornire più risorse allo Stato, ma potrebbe anche non falsare le regole del gioco.

E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale. Inoltre bisogna considerare la proposta nel contesto attuale della realtà italiana, in cui la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 30%, in cui si prevede che molti lavoratori atipici potranno aspirare solo all’assegno sociale (oggi di 411 euro), e con i redditi che si prospettano in futuro per gli studenti attuali la percentuale di chi non sarà in grado di restituire la somma potrebbe essere altissima generando dunque “una bolla universitaria” come sta avvenendo negli Stati Uniti: mentre le tasse universitarie sono in aumento, i rendimenti di un diploma di laurea sono in calo e la solidità dei prestiti agli studenti è minacciata da crescenti tassi di insolvenza.

Non va dimenticato poi che i prestiti per coprire le spese d’istruzione si aggiungono all’indebitamento delle famiglie, una delle principali cause dell’attuale crisi finanziaria. Per questo motivo, anche negli Stati Uniti, ci sono delle forti critiche al sistema dei prestiti. Per fare un esempio, l’86% dei medici negli Stati Uniti si laureano contraendo un debito medio di 155.000 dollari, cosa che sta portando a una notevole contrazione del numero di medici, che pure sono necessari al paese. Questo esempio mostra chiaramente che l'istruzione non è un investimento a favore del singolo ma a favore della comunità e per questo deve essere pubblica e finanziata dallo Stato: è la comunità nella sua globalità, a prescindere dal censo, che trae giovamento dall’istruzione.

Nella proposta è tuttavia previsto che vi sia un certo numero di “insolvenze”. A questo riguardo si nota che

«naturalmente questo comporterà che si debba prevedere una certa percentuale di casi in cui la restituzione non avverrà; si può però evitare che ne derivi un maggior onere per lo Stato stabilendo che questa percentuale sia coperta (in tutto o in parte) dalle università stesse interessate, che così ne risulteranno responsabilizzate sia riguardo alla qualità degli studenti ammessi sia riguardo alla qualità dell’insegnamento».

Dunque lo Stato (o anzi una fondazione a partecipazione statale già prevista dal DL 70 del 13 maggio 2011) anticipa dei soldi all'università per ogni studente che non può permettersi di pagare le tasse; poi, se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo stato, altrimenti è l'ateneo che deve restituirli. In questo modo, non solo gli atenei sono costretti ad agire come imprese private che investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati, ma diventa il mercato del lavoro a influenzare cosa e come s’insegna. E’ ovvio che la scommessa abbia tanto più probabilità di successo quanto più la famiglia dello studente è agiata e quanto più una laurea è spendibile nel mercato del lavoro. Minimizzando il rischio si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni. Vale la pena ricordare, come ha ben spiegato il premio Nobel per la fisica Sheldon Glashow, che il “ritorno” economico delle scienze di base, ammesso che sia possibile quantificarlo concretamente, richiede generalmente un tempo scala più lungo di quello rilevante per la vita di una singola persona.

In conclusione la vera e unica ragione per aumentare le tasse è la compensazione della diminuzione del finanziamento pubblico all'università, da attuare secondo i dettami dell’ideologia neo-liberista, e non il perseguimento di una maggior qualità della ricerca o dell’insegnamento o di una maggiore equità sociale. Tuttavia, piuttosto che diminuire, un sistema basato su alte tasse universitarie e prestiti d’onore, aumenterebbe la differenza di possibilità e opportunità tra i ceti più e meno abbienti, allargando la forbice sociale e rendendo il sistema sostanzialmente più iniquo e con meno giustizia sociale. Inoltre, questo sistema metterebbe in grande difficoltà gli atenei nei territori economicamente più deboli abbandonando a se stesse le zone più depresse del paese. Infine, questo sistema non può che avere delle conseguenze deleterie per la stessa istituzione universitaria, condizionando non solo la scelta di chi avrà possibilità di studiare, ma anche di cosa sarà più conveniente studiare, secondo una logica assoggettata alle richieste di un malinteso mercato.

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