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AIDS: cauto ottimismo per il "vaccino italiano"

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Recentemente in Italia ha ricevuto grande attenzione mediatica uno studio coordinato da Barbara Ensoli dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato dalla rivista Plos One (Ensoli 2010). Questo studio ha riguardato un’analisi in corso d’opera (interim) fino a 48 settimane successive alla somministrazione intradermica di un vaccino terapeutico della proteina virale Tat (poco studiata all’estero quale immunogeno vaccinale anti-HIV) somministrata per 3-5 volte in due dosaggi (7,5 o 30 µg) intra-dermici in 8-16 settimane. La popolazione in esame era costituita da 87 persone sieropositive, negative per la presenza di anticorpi (Ab) anti-Tat all’ingresso dello studio, che hanno ricevuto il vaccino (open label) e da una coorte osservazionale di 88 persone con le stesse caratteristiche, ma che non ha ricevuto il vaccino. Tutte le persone arruolate in entrambe le coorti erano in trattamento efficace con cART (viremia <50 copie/ml). Lo studio di fase II, molto ricco in dettaglio sperimentale (14 figure, 11 tabelle!), dimostra due cose fondamentali: la sicurezza (safety) dell’approccio vaccinale, premessa indispensabile per ogni possibile sviluppo applicativo, e la sua immunogenicità, dimostrabile sia per induzione di Ab specifici che di risposte proliferative T cellulari nonché di molti correlati di risposta immunologica, tra cui:

  1. un aumento del numero di linfociti T CD4+ circolanti (di ca. 50-100 cellule/µl), significativo fino alla 16esima settimana di follow-up ed inclusivo di un aumento di cellule a fenotipo regolatorio (Tregs);
  2. un aumento del numero di linfociti B;
  3. una diminuzione del numero di linfociti T CD8+, con una riduzione di cellule CD8+CD38+, e di cellule NK;
  4. un aumento complessivo di linfociti T CD4+ e CD8+ a fenotipo central memory ed effector memory;
  5. variazioni di molti altri parametri di attivazione immunologica

Forse per la scarsa propensione dei media alla diffusione di notizie scientificamente corrette o forse per un entusiasmo comprensibile, ma eccessivo, nella comunicazione dell’ISS, la percezione generale della notizia è stata che la soluzione finale all’AIDS sia prossima grazie «vaccino italiano contro l’AIDS» (esperienza personale: se un persona comune ti ferma per strada e ti chiede «quest’anno oltre al vaccino influenzale non possiamo fare anche quello contro l’AIDS?» significa che qualcosa è stato sbagliato a livello mediatico). Facciamo un pò di chiarezza.

Innanzitutto stiamo parlando di un vaccino terapeutico, quasi un ossimoro, e non preventivo, ma a sottendere una strategia d’intervento immunologico concepita da Luis Pasteur contro la rabbia e finalizzata a potenziare le risposte immunitarie esistenti o ad indurne di nuove in persone (o animali) già infettati da un determinato virus (secondo Pasteur potenzialmente efficace nelle fasi iniziali d’infezione). Nel campo dell’infezione da HIV va sottolineato che la cART è efficacissima nel controllare la replicazione virale, come osservato anche nei partecipanti a questo studio, salvo il problema delle varianti virali resistenti ai farmaci per scarsa aderenza ed il problema degl’importanti effetti collaterali che emergono frequentemente dopo mesi di assunzione delle terapie.

Inoltre, a oggi, nessuna di queste combinazioni terapeutiche è stata in grado d’intaccare i cosiddetti serbatoi virali, ovvero delle cellule cronicamente infettate (portatrici di DNA virale integrato nel genoma cellulare) che vengono risvegliate ogni qual volta la terapia viene interrotta e promuovono la ripresa della replicazione virale e della progressione di malattia.

In quest’ottica vanno collocati i vaccini terapeutici e va sottolineato come, finora, abbiano tutti fallito l’obiettivo di controllare la ripresa della replicazione virale o di promuovere un aumento significativo del numero di linfociti T CD4+ circolanti mediante induzione o potenziamento di risposte immunitarie specifiche.

Uno studio recente coordinato da Brigitte Autran a Parigi ha mostrato che gl’individui vaccinati dimostravano un incremento di viremia probabilmente come conseguenza dell’attivazione bystander del sistema immunitario che favorisce la replicazione di HIV a fronte di una risposta specifica, pur misurabile, troppo debole per influenzare positivamente il contenimento dell’infezione (Papagno 2010).

In questo scenario è legittimo condividere l’entusiasmo del team guidato dall’ISS e coinvolgenti i maggiori centri di malattie infettive italiani (tra cui, però, spicca l’assenza dell’Istituto Luigi Spallanzani di Roma) nell’annunciare i risultati di questa interim analisi. Poiché tutti i partecipanti hanno mantenuto la terapia anti-retrovirale durante lo studio non è possibile sapere se le risposte immunitarie modulate dalla vaccinazione si tradurranno in un effettivo controllo terapeutico della replicazione virale in caso di sospensione dei farmaci. A tal riguardo, un caveat viene dall’esperienza negativa degli studi di fase III con interleuchina-2 che, pur aumentando (molto più che la vaccinazione con Tat) il numero di linfociti T CD4+ circolanti, soprattutto e forse proprio a causa del fenotipo Treg, non ha protetto dalla progressione di malattia (INSIGHT-ESPRIT Study Group 2009). Il ruolo di queste cellule nell’infezione da HIV è quindi ancora da comprendere pienamente e queste vanno, quindi, maneggiate con cura. Tuttavia alcune prove scientifiche supportano l’ipotesi che il vaccino terapeutico anti-Tat possa indurre risposte protettive. Infatti, la presenza di Ab anti-Tat è stata correlata a un miglior controllo della viremia in una coorte prospettica di sieropositivi, come già pubblicato dal team dell’ISS (Rezza 2005) e come confermato da studi su individui detti long term non-progressors (LTNP) (caratterizzati dal mantenimento di alti livelli di linfociti T CD4+ in assenza di terapia anti-retrovirale) ancora non pubblicati di Barbara Ensoli in collaborazione con il sottoscritto. Inoltre, Mauro Malnati all’IRCCS San Raffaele (uno dei centri partecipanti allo studio vaccinale) studiando sia LTNP che individui controllori naturali in grado di mantenere bassi livelli di viremia in assenza di cART ha notato che essi sono caratterizzati da risposte adattive T linfocitarie specifiche contro la proteina Tat a differenza di soggetti normo-progressori. Quindi cauto ottimismo e maggior attenzione nella comunicazione mediatica.

Un’ultima considerazione sul fatto che il trial vaccinale sia stato condotto interamente con finanziamenti pubblici (stimati dall’ISS in ca. 20 milioni di euro complessivi). Per alcuni ricercatori ciò rappresenta uno scandalo visto lo scarso finanziamento complessivo della ricerca italiana biomedica e di quella su HIV/AIDS in particolare. Personalmente, ritengo da molto tempo che lo scandalo sia che allo sforzo di esplorare un’ipotesi poco studiata all’estero (che se di successo conferirebbe un ruolo non ridondante alla ricerca italiana in campo vaccinale) non corrisponda un altrettanto importante investimento in altre aree di eccellenza della ricerca nazionale su HIV/AIDS. Va ricordato che, grazie all’esistenza dalla fine degli anni ‘80 di un Programma Nazionale dedicato alla ricerca su HIV/AIDS del Ministero della Salute, l’Italia siede al tavolo dei G7 per qualità e quantità di pubblicazioni scientifiche sia di base che cliniche.

Quest’anno, infatti, pur con molte anomalie (segnalate da Anita De Rossi su Scienza in Rete: Programma Nazionale sull'Aids, la valutazione non va), è giunto alla conclusione il bando di finanziamento del Programma Nazionale 2009 per circa 9,8 milioni di euro (per i prossimi due anni) per cui i contratti di ricerca con i singoli istituti sono in fase di attivazione. Ci auguriamo quindi che il successo ad interim del trial vaccinale dell’ISS possa fare da traino per una conferma ed un potenziamento del Programma Nazionale. Se, infatti, il 2010 è stato un anno ricco di buone notizie nel campo della prevenzione dell’infezione da HIV ci auguriamo che questo prosegua nel prossimo 2011 quando, dopo Vienna 2010, sarà Roma a ospitare il meeting dell’International AIDS Society. Sarebbe importante che, al completamento dello studio del vaccino terapeutico anti-Tat (che ci auguriamo confermi ed estenda i risultati dello studio appena pubblicato), il meeting di Roma fosse ricordato anche per il rilancio del finanziamento pubblico della ricerca italiana contro l’HIV/AIDS.

Speranze per i gel
Non vi è alcun dubbio che il 2010 rappresenterà una tappa importante nella storia della prevenzione dell’infezione da HIV. Dopo il primo, seppur parziale, successo del CAPRISA 004, ovvero del primo gel vaginale a base di Tenofovir (un farmaco anti-retrovirale), annunciato al meeting “mondiale” di Vienna lo scorso luglio (vedi Standing ovation per il microbicida che previene l'AIDS), il prestigioso New England Journal of Medicine riporta la settimana scorsa (Grant 2010) un altro parziale successo, ovvero la capacità dello stesso Tenofovir (scelto tra altri per la semplicità d’assunzione, biodisponibilità ed assenza di effetti collaterali significativi) combinato ad emtricitabina di ridurre il numero di nuove infezioni quando somministrato preventivamente ad una popolazione ad alto rischio di acquisizione della stessa. La strategia in questione è caratterizzata dall’acronimo PrEP (Pre-Exposure Prophylaxis) ed è stata comparata efficacemente alla pillola contraccettiva. Lo studio clinico (iPrEx, n. NCT00458393) è stato randomizzato in doppio cieco e controllato da placebo con una mediana di follow-up di 1,2 anni coinvolgendo 2.499 omosessuali maschi e transgender nei continenti americani, in Sud-Africa e Tailandia. Delle 100 nuove infezioni (incidenza) 64 sono avvenute nel gruppo placebo e 36 nel gruppo trattato per un’efficacia stimata del 44%. Nel braccio trattato la presenza dei farmaci in vivo è stata dimostrata nel 51% dei casi protetti dall’infezione e solo nel 9% di coloro che si sono infettati, enfatizzando l’importanza dell’aderenza (ma anche la difficoltà di monitorarla e l’inaffidabilità dei documenti di autovalutazione) per l’efficacia di questi interventi profilattici.
Sono tuttavia anche emersi problemi di tossicità renale (scomparsa alla sospensione del trattamento) e di resistenza all’emtricitabina che suggersicono grande cautela nell’ipotesi di allargare questo tipo d’interventi alla popolazione generale. Infatti, è probabile che ulteriori studi di questo tipo saranno concentrati in popolazioni ad alto rischio di contrarre l’infezione. Un aspetto importante per la giusta valutazione di questi diversi approcci che stanno finalmente dando risultati tangibili in termini di prevenzione (includendo il primo vaccino parzialmente preventivo, RV144, pubblicato nel 2009) è che ogni approccio comporta una protezione parziale, variabile dal 30 al 50% (nel caso della circoncisione efficace esclusivamente per la popolazione maschile) se escludiamo la già comprovata efficacia del trattamento farmacologico della donna in gravidanza o durante l’allattamento al seno nel ridurre la trasmissione al figlio.
Può questo sottendere una potenziale sinergia tra i diversi approcci? Quali sono i correlati di protezione per cui un individuo non s’infetterà mentre un altro, apparentemente con le stesse caratteristiche, risulterà sieropositivo nonostante questi presidi? Ciò che più conta, tuttavia, è il fatto che la barriera di cristallo della prevenzione immuno-farmacologica comincia finalmente a mostrare crepe profonde ed è legittimo aspettarsi che prima o poi s’infrangerà definitivamente e potremo iniziare a sperare concretamente in un mondo senza AIDS.

Grant R et al. New England Journal of Medicine 2010; Nov 23.
Ensoli B et al. Plos One 2010; Nov 11; 5(11): e13540.
Papagno L. et al. AIDS 2010; Nov 11.
INSIGHT-ESPRIT Study Group. N Engl J Med 2009; 361(16): 1548.
Rezza G. J Infect Dis 2005; 191(8): 1321.


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