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Medico e ricercatore: come bruciare i due lati della candela, senza scottarsi

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I nuovi farmaci e le tecnologie a supporto della diagnosi e cura sono senza dubbio uno dei frutti più tangibili e attrattivi del processo di ricerca in medicina. La prospettiva di contribuire al progresso delle cure, e il fatto che nella ricerca clinica si concentrino ingenti risorse (ovvero posti di lavoro), sono tra i principali fattori che spingono gli scienziati non medici a lanciarsi nell’arena della ricerca applicata. Meno evidenti sono invece le ragioni che spingono i clinici ad allontanarsi dal letto del paziente per impegnare parte del loro tempo in un settore che viene descritto con crescente enfasi come malridotto, vessato da politiche restrittive e poco attrattivo. In questa cornice i medici ricercatori possono passare facilmente per avventurieri di buon cuore, disposti a rinunciare a certezze per inseguire remote possibilità. Perché compiono questa scelta? Che riconoscimenti ottengono? Domina la frustrazione o la soddisfazione?

In questo articolo parlerò dei clinici che non hanno un ruolo formalizzato nel mondo della ricerca, non sono strutturati all’interno dell’università o in un centro di ricerca, ma che fanno ricerca come dopolavoro, spinti da idealismo, passione e convinzione personale. Ma anche da alcune opportunità.

Isole in cerca di un continente

Per i medici la via della ricerca non è agevole e non esiste una tracciato sicuro da percorrere. Occorre dedicare anni in più allo studio dopo una già lunga laurea, partecipando a corsi post-laurea per aumentare le proprie competenze. Anche l’attività di ricerca è ad alto investimento temporale. I clinici che vogliono condurre i propri studi sperimentali spesso trovano il tempo per farlo in brevi pause tra un attività e l’altra, o solo dopo aver terminato la giornata di reparto, prolungando di fatto un già lunghissimo ed estenuante tempo di lavoro. In molte strutture questo tempo non solo non è riconosciuto, ma può essere mal sopportato dai colleghi e osteggiato dai superiori perché la routine e la sussistenza sono preferite al rischio e all’approccio per tentativi ed errori, due attitudini tipiche dell’attività di ricerca. Non è così sempre. In alcuni paesi, come la ‘lontana’ Scandinavia e la ‘vicina’ Spagna, il sistema sanitario ripaga all’ospedale il tempo investito dal medico in attività di ricerca. Una ‘recompera’, spesso predeterminata, di percentuali significative del tempo di un professionista.

Infatti, quando la partecipazione dei medici nelle attività di ricerca è ridotta, questo genera alcune ricadute. Per i medici che vi dedicano un tempo molto limitato, è difficile acquisire le competenze necessarie per condurre autonomamente tutti i passaggi di uno studio, dalla raccolta dei dati, all’analisi, alla preparazione dei documenti che accompagnano la sperimentazione (comitato etico, assicurazione, ecc.). Spesso si approda a un compromesso: testare ipotesi molto semplici, replicare studi o reclutare pazienti per conto di altri (l’industria). Mancano colleghi con cui confrontarsi e professionisti a supporto delle attività di ricerca, come statistici, documentalisti, coordinatori. Nel medio e lungo periodo questo significa trovare poco spazio, in particolare perché è difficile attrarre fondi, essere riconosciuti come potenziali principal investigator e sviluppare studi a forte carattere innovativo.

D’altro canto, fare ricerca e continuare a fare il medico implica che si debba, come si suol dire, bruciare la candela da entrambe le estremità. Una pratica a detta di alcuni non raccomandabile e che sarebbe vantaggioso rimpiazzare con una sistematica divisione tra medici e ricercatori, senza che i primi si identifichino necessariamente con i secondi. Questo spesso vale anche per gli Istituti di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), dove la ricerca è idealmente parte delle attività cardine e tuttavia spesso esiste una netta divisione tra chi fa ricerca, e la fa a tempo pieno, e i clinici, per i quali la ricerca è un’attività collaterale.

Il bilanciamento armonico

Sebbene alcune strutture italiane inizino a privilegiare curricula misti, la mancanza di un percorso di carriera che premi un bilanciamento armonico tra attività di ricerca e attività di corsia penalizza il medico ricercatore. Che cosa, dunque, spinge i clinici fare entrambe le cose? Perché un professionista che ha nell’assistenza la sua attività primaria dovrebbe aver voglia di fare ricerca?

Da una parte il fascino della ricerca sta nella prospettiva di poter – anzi, di dover – seguire un’idea, una visione, in virtù della quale ogni giorno è un giorno buono per scoprire qualcosa di nuovo laddove, al contrario, nella pratica clinica è necessario attenersi a quanto già noto e sancito dagli stringenti dettami dei protocolli. La dose di libertà personale e di autonomia intellettuale che si assapora nella ricerca è inimmaginabile nella routine di una quotidianità spesa nella cura del paziente. Ma ci sono altri motivi per cui i medici rinnovano un tributo alla ricerca in termini di energie e tempo.

La consuetudine con il paziente, e i dubbi che ricorrono durante le visite, concorre a delineare la prospettiva della ricerca dei medici e, soprattutto, ne impronta gli aspetti motivazionali, offrendo lo slancio per uscire dal guado di una sperimentazione. Inoltre, un clinico è in grado di formulare connessioni più realistiche tra i risultati della ricerca e le possibili strategie terapeutiche. Un aspetto non certo marginale. Vale però anche il contrario: i vantaggi sono tangibili pure per l’attività clinica, che trae giovamento da senso critico e capacità di discernimento maturati con l’abitudine a ragionare sulla validità dei dati – la ricerca accresce l’attitudine al problem solving. Il paziente, secondo alcuni studi, ne beneficia altrettanto, o ancora di più: la sopravvivenza, secondo alcuni studi, aumenta.

Esistono anche altri vantaggi. Tra le ricerche a cui ha partecipato un medico, a volte, alcune si affermano nel panorama scientifico. Le competenze e l’acume guadagnato operando per tentativi (e a volte un po’ di fortuna), fanno sì che il medico imbrocchi uno studio che gli apre le porte della comunità internazionale (oltre alle ricadute sui pazienti dello studio stesso). Il riconoscimento, a volte modesto nel proprio ospedale, cresce nella comunità allargata, dove è possibile una condivisione dei quesiti di ricerca e si incoraggiano i tentativi di rispondervi. La possibilità di viaggiare e di divulgare i risultati ottenuti a un pubblico interessato possono essere fonte di grande soddisfazione e un modo per creare nuove collaborazioni. In tempi austeri, nei quali le risorse a disposizione si contraggono, la ricerca è un modo di garantirsi risorse addizionali, che permettano una crescita professionale oltre i muri del proprio ospedale.

Il confronto con i giganti

Un ultimo vantaggio deriva dal fatto che l’attività di ricerca è riconosciuta in alcune strutture, spesso prestigiose. Tra i molti ospedali che si definiscono strutture all’avanguardia o di eccellenza, una quota minoritaria ma non trascurabile ha nel suo DNA politiche di reclutamento che premiano il merito di chi ha bruciato dai due lati, cercando i professionisti che si sono distinti per la loro capacità di individuare tematiche di frontiera e portare miglioramenti alle cure offerte. Il candidato ideale non solo ha preso parte a studi sperimentali, ma ne ha sviluppati in prima persona, scegliendone il disegno e la tattica, e presentandone i risultati.

Così il medico e ricercatore ha l’opportunità di lavorare in strutture in cui la componente burocratica, la standardizzazione del lavoro e la razionalità economica sono più lievi, e dove è riconosciuta la diversità degli approcci e la ricerca di soluzioni innovative. Queste strutture offrono l’opportunità di confrontarsi quotidianamente con uomini e donne di pensiero e di scienza – i giganti - spesso con condizioni lavorative migliori, sia per soddisfazione dello staff che per spirito collaborativo.

Sarebbe auspicabile che nel prossimo futuro l’incontro tra giovani medici ricercatori e strutture improntate alla ricerca fosse facilitato, tramite lo sviluppo di percorsi strutturati. Il programma universitario MD-PhD ne è un esempio, ma rappresenta un’offerta limitata sia per il numero di candidati ammissibili, sia perché la scelta è spostata in una fase molto precoce della carriera. Servirebbero programmi flessibili, in cui alla professione medica si accompagnano tempi certi dedicati alla ricerca, che si creino figure professionali miste, altamente qualificate (cioè clinical scientist e investigator). E lo stesso vale per molte altre professioni votate alla clinica (per esempio infermieri, fisioterapisti, ecc.) che dovrebbero trovare un riconoscimento dapprima culturale, e poi legislativo.

E così la famosa candela, bruciando da due lati, può illuminare un percorso professionale di piena gratificazione, in un bilanciamento armonico di attività, malgrado i tempi austeri.


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