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ET, Frank Drake e gli altri

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Erano i primi anni Sessanta quando Frank Drake, uno dei pionieri in questo campo, propose le sue riflessioni sulla possibile esistenza di altre civiltà nell’Universo. Codificate nella famosa equazione, quelle riflessioni hanno da allora indotto e sostenuto la ricerca di possibili segnali intelligenti nel Cosmo. Con il passare del tempo e l’ampliarsi delle nostre conoscenze sono state proposte integrazioni, approfondimenti e nuove versioni. Il traguardo dei 55 anni dalla sua proposizione, l’incredibile aumento di pianeti extrasolari (tra i quali un numero sempre crescente di potenziali “gemelli” della Terra) e la pubblicazione di nuovi interessanti approfondimenti sono ottimi motivi per parlarne.

Ha indubbiamente fatto scalpore l’annuncio dato nei giorni scorsi dagli astronomi che elaborano i dati raccolti dal telescopio spaziale Kepler: 1.284 nuovi pianeti extrasolari si sono aggiunti alla lista di quelli scoperti finora, portandone così il numero complessivo a quota 3.412. Quasi inevitabile che anche i non addetti ai lavori si ritrovino a masticare dubbi e domande non tanto sulla reale diffusione nel Cosmo degli oggetti planetari, quanto piuttosto sulla possibilità che, almeno su qualcuno di essi, sia presente una qualche forma di vita, magari sfociata in una civiltà evoluta. Domande cruciali, la cui portata va ben al di là del semplice aspetto scientifico.

Probabilmente, la prima riflessione su queste tematiche nella comunità dei ricercatori risale al settembre 1959, quando Giuseppe Cocconi e Philip Morrison (allora alla Cornell University) pubblicarono su Nature uno studio sulla possibilità di individuare comunicazioni interstellari. Più o meno in quello stesso periodo, ricorrendo alle apparecchiature del National Radio Astronomy Observatory di Green Bank, in Virginia, Frank Drake si lanciava per primo in quella caccia davvero complicata. Dall’aprile al luglio 1960, con il suo Project Ozma, scansionò le frequenze radio prossime a quella che caratterizza l’emissione dell’Idrogeno neutro, considerate le più indicate per la trasmissione di segnali radio nello spazio da parte di una civiltà tecnologicamente evoluta. Risultati deludenti, che ebbero comunque il pregio di aprire la strada a un nuovissimo campo di ricerca, un ambito che, sebbene oggi lo si consideri cruciale e attraente, fino ad allora non era mai stato neppure ipotizzato.

Qualche mese più tardi, la National Academy of Sciences incaricò Drake di organizzare un incontro sul tema della rilevazione di possibili intelligenze extraterrestri. L'incontro si tenne proprio a Green Bank nel 1961 e vide la partecipazione di una dozzina di ricercatori provenienti da ambiti differenti: vi erano astronomi e fisici, ma anche biologi e studiosi di scienze sociali. I partecipanti, che si diedero l’altisonante appellativo di Ordine del Delfino (un omaggio agli studi sulla comunicazione di questi cetacei compiuti da John Lilly), erano stati personalmente contattati da Drake, coordinatore organizzativo e responsabile scientifico di quello storico convegno.

La famosa equazione che porta il nome di Drake nacque proprio nel corso della fase preparatoria dell'incontro. In un’intervista di una dozzina d’anni fa, raccontando come sia nata l’equazione, l’astronomo statunitense ne sottolinea chiaramente la vera essenza: «Pianificando l'incontro, mi resi conto con qualche giorno d'anticipo che avevamo bisogno di un programma. Mi scrissi così tutte le cose che avevamo bisogno di conoscere per capire quanto difficile si sarebbe rivelato entrare in contatto con forme di vita extraterrestri. Guardando quell'elenco diventò piuttosto evidente che, moltiplicando tutti quei fattori, si otteneva un numero che è il numero di civiltà rilevabili nella nostra galassia. Questo, ovviamente, mirando alla ricerca radio e non alla ricerca di esseri primordiali o primitivi.»

Non proprio un’equazione

Contrariamente a quanto possa suggerire il suo aspetto, insomma, l’espressione di Drake non deve essere considerata una vera e propria equazione. Troppe le incertezze in gioco e praticamente impossibile per alcuni fattori che la compongono suggerire valori che abbiano un qualche fondamento scientifico al di fuori di generiche e vaghe considerazioni. E’ lo stesso Drake, nella citata intervista, a sottolineare come il grado di incertezza delle voci che compaiono nella relazione aumenti man mano ci si sposti verso destra, passando cioè dai fattori astrofisici a quelli biologici e infine a quelli che potremmo definire sociologici. Un’incertezza che, inevitabilmente, si ripercuote sull’intera valutazione, con l’errore più grande a condizionare pesantemente il risultato finale.

Interessante osservare, per esempio, come la valutazione di alcuni parametri, compresi quelli astronomici ritenuti sufficientemente noti già negli anni Sessanta, sia mutata nel corso degli anni (si vedano, per esempio, i dati proposti da Wikipedia), mentre per altri si brancoli ancora nel buio più fitto.

Spesso ci si concentra unicamente sul numero che si ottiene come risultato e si dimentica che ciò che si sta facendo è solo un tentativo di mettere un po’ d’ordine nella nostra ignoranza sulle problematiche che riguardano la vita extraterrestre. Con il rischio concreto, insomma, di ridurre le corrette riflessioni di Drake a un appassionante gioco numerico nel quale possiamo alimentare le nostre speranze di non essere soli a gustare le meraviglie del Cosmo. 

Un occhio alla statistica

Fortunatamente, accanto a un utilizzo grezzo e fin troppo semplicistico e spensierato della relazione di Drake si sono registrati anche tentativi seri di rielaborazione delle riflessioni che l’hanno originata.

Nel 2010, pubblicando lo studio su Acta Astronautica (in un numero speciale dedicato interamente alla ricerca delle tracce della vita nel Cosmo), Claudio Maccone propone quella che lui chiama Statistical Drake Equation. L’idea di Maccone è quella di applicare alla relazione le caratteristiche tipiche delle analisi statistiche, giungendo così a risultati più affidabili. Non si interviene, dunque, sull’ineliminabile incertezza che caratterizza le singole voci, ma si prova a minimizzarne l’errore con affidabili tecniche statistiche, ottenendo in tal modo risultati più precisi.

Applicando questa relazione, per esempio, Maccone stima che la nostra Galassia possa ospitare circa 4.600 civiltà, oltre 1.000 in più di quelle indicate dalla classica equazione di Drake. Provando a valutare la distanza media che potrebbe separare due civiltà, si ottiene che la civiltà più vicina potrebbe trovarsi a 2.670 anni luce dalla Terra. Inoltre, vi è il 75% di probabilità che si possa incontrare una civiltà extraterrestre entro distanze comprese tra 1.361 e 3.979 anni luce dal nostro pianeta.

Numeri che, da un lato, lasciano immaginare un Universo che pullula di fiorenti civiltà, ma che, dall’altro, decretano l’impossibilità pratica di stabilire una qualunque forma di contatto. Considerando distanze meno proibitive, l’analisi di Maccone indica che la probabilità di rilevare un segnale emesso da una civiltà posta a meno di 500 anni luce è molto prossima allo zero. Poiché l’attuale tecnologia fa sì che gli sforzi di ricerca in atto possano concentrarsi solo entro simili distanze, risulta perfettamente comprensibile il disarmante silenzio mestamente raccolto dai radiotelescopi.

Ampliare la caccia

Il potenziamento della nostra capacità di rilevazione è senza dubbio una meta da perseguire, ma vi è chi suggerisce di non limitare la nostra ricerca unicamente alla vita intelligente ed evoluta. E’ il parere di Sara Seager, astrofisica e planetologa di origine canadese attualmente in forza al MIT. Attivamente impegnata nello studio delle atmosfere che circondano i pianeti extrasolari, in un’intervista pubblicata online su Astrobiology Magazine un paio d’anni fa suggerì una sorta di ampliamento dell’equazione di Drake. Non una versione alternativa, ma quasi una relazione parallela e di più ampio respiro, che permetta di valutare le probabilità di poter individuare una qualunque forma di vita. La relazione proposta dalla planetologa, infatti, non è indirizzata alla valutazione della probabilità di individuare civiltà evolute in grado di utilizzare comunicazioni radio, bensì alla probabilità di rilevare le tracce gassose lasciate dal metabolismo di organismi viventi nelle atmosfere planetarie. Nella composizione dell’atmosfera terrestre, per esempio, troviamo l’apporto dei processi metabolici degli esseri viventi che popolano e hanno popolato il nostro pianeta, l’impronta digitale lasciata dalla presenza di vita. Allo stesso modo, analizzando l'atmosfera di un pianeta extrasolare potremmo riuscire a rilevare su quel mondo remoto la presenza della vita, anche se in forma molto elementare quale può essere quella dei microorganismi che popolano uno stagno.

Si dovrà comunque valutare con estrema attenzione quali gas considerare decisivi: «In quanto esseri umani – spiega Sara Seager – con la respirazione produciamo anidride carbonica. Apparentemente potrebbe dunque essere questo il gas in grado di indicare la tipologia di vita che ci caratterizza. Peccato che il suo utilizzo come indicatore non sia affidabile: nell’atmosfera terrestre, infatti, l’anidride carbonica è presente naturalmente, prodotta da processi non biologici. Dobbiamo dunque considerare altre alternative, per esempio l’ossigeno o l’ammoniaca.»

I fattori presenti nella nuova relazione proposta dalla planetologa del MIT sono ovviamente differenti da quelli considerati da Drake, ma identici rimangono i limiti di fondo: non abbiamo idea di quale sia il valore corretto da assegnare alla maggior parte di essi. Questo non impedisce a Sara Seager di essere molto ottimista, convinta che entro pochi anni, soprattutto grazie all’avvio della Missione TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) e all’entrata in servizio del James Webb Space Telescope, si possa avere la conferma di almeno un paio di altri pianeti che, oltre la Terra, ospitano la vita.

C’è mai stato qualcun altro?

L’ultima significativa rilettura delle problematiche suggerite dalla relazione di Drake è quella pubblicata sul numero di maggio di Astrobiology da Adam Frank (University of Rochester) e Woodruff Sullivan (University of Washington). Più che una riformulazione, però, siamo in presenza di un vero e proprio cambio di prospettiva. I due ricercatori, infatti, anziché chiedersi se esista qualche civiltà aliena in questo preciso momento della storia dell’Universo provano a valutare se quello della civiltà umana sia un caso isolato oppure no. Nella loro analisi, cioè, puntano a valutare la frequenza con la quale possano apparire nel Cosmo specie tecnologicamente evolute.

Applicando alla loro analisi le stime ritenute statisticamente più affidabili, Frank e Sullivan giungono a suggerire che la probabilità che tra i miliardi di miliardi di sistemi stellari presenti nell’Universo sia esistita una forma di civiltà tecnologicamente avanzata come la nostra è incredibilmente alta. Considerando tutta quanta la storia dell’Universo, dal Big Bang ai nostri giorni, sarebbe accaduto quasi 10 miliardi di volte. Ovviamente il cuore delle valutazioni dei due astronomi è la stima della probabilità che su un pianeta abitabile possa svilupparsi una civiltà tecnologicamente evoluta. Una stima che, a seconda che propendiamo per una visione ottimistica o pessimistica, può assumere valori davvero molto differenti.

«Non abbiamo la minima idea di quanto possa valere tale stima ammette Frankma con il nostro metodo abbiamo comunque individuato una soglia (noi la chiamiamo “linea del pessimismo”) che segna il limite al di sotto del quale la nostra è l’unica civiltà comparsa nell’Universo. Questo significa altresì che, se il valore è superiore alla linea del pessimismo, è probabile che altre civiltà tecnologiche abbiano fatto la loro comparsa.»

Secondo le valutazioni dei due autori, per ottenere tale soglia dovremmo ipotizzare che le probabilità che su un pianeta possa svilupparsi una civiltà siano inferiori a una su un milione di miliardi di miliardi. Un numero talmente elevato che impone anche ai più pessimisti una pausa di riflessione.

Anche in questo caso, insomma, sembra proprio che le pesanti incertezze che caratterizzano molti fattori che compaiono nelle varie formulazioni della relazione di Drake finiscano con l’essere stemperate dall’immensità dell’Universo.

A ridare coraggio ai più pessimisti ci pensa la banale – ma comunque decisiva – considerazione che, per il momento, là fuori non abbiamo ancora incontrato nessuno. Non sappiamo se si tratti di una situazione reale, se sia una conseguenza della nostra inadeguatezza tecnologica oppure frutto del desiderio di riserbo delle altre civiltà. La famosa domanda attribuita a Enrico Fermi resta sempre valida: “Se l'Universo pullula di civiltà sviluppate, dove sono tutti quanti?”.

 

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Per approfondire:
Paper di Cocconi e Morrison (1959)
(a cura di SETI Italia)
http://setiitalia.altervista.org/Cocconi3.html

Is There Life Out There? - Sara Seager free ebook
http://seagerexoplanets.mit.edu/ProfSeagerEbook.pdf

Paper di Frank e Sullivan
https://arxiv.org/ftp/arxiv/papers/1510/1510.08837.pdf


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