Epatite C: nuove terapie, tra benefici e prudenza

Pubblicato il 28/09/2012Tempo di lettura: 4 mins

Dubbi e certezze sul test per il virus C dell'epatite

L’obiettivo di qualsiasi offerta di procedura di screening è quello di individuare una malattia in una fase di evoluzione sufficientemente precoce da essere suscettibile di interventi che ne modifichino in positivo la storia naturale. Quindi, i due elementi fondamentali che giustificano un’offerta di screening sono la capacità del test di individuare una malattia asintomatica in uno stadio che può giovarsi di un intervento terapeutico precoce e, di conseguenza, l’esistenza di una terapia efficace. In aggiunta altro prerequisito è che in generale i benefici dello screening siano di gran lunga superiori a possibili effetti indesiderati che possono essere: effetti avversi della terapia, individuazione di soggetti che a fronte della conoscenza della propria condizione patologica non possono giovarsi di alcun beneficio, individuazione di una quota inaccettabile di falsi positivi (bassa specificità del test).

Sebbene gli elementi per valutare la praticabilità dell’offerta di uno screening siano quindi chiari ed accettati dalla comunità scientifica e da coloro che hanno la responsabilità della salute pubblica, spesso l’offerta di screening è stata oggetto di controversie relativamente ai benefici apportati. Così ad esempio è stato per l’impiego del PSA nell’individuazione precoce del Ca prostatico o della TAC spirale nell’individuazione di un Ca polmonare asintomatico. Quanto detto è confermato dal fatto che sebbene oggi esistano molti test e procedure per individuare malattie in stadi precoci, le uniche offerte di screening che trovano unanime consenso sono il pap test per Ca della cervice, la mammografia per il Ca della mammella nelle donne di età superiore a 49 anni e la colonscopia per la prevenzione del Ca del colon nei soggetti di età superiore a 50 anni.

Venendo ora allo specifico dell’offerta del test per l’individuazione dei soggetti portatori del virus C dell’epatite al fine di indirizzare i positivi alla terapia, nel 2005, una conferenza di consenso tenuta presso l’Istituto Superiore di Sanità non riteneva candidabili allo screening  “i soggetti di età superiore a 65 anni, in quanto generalmente non eleggibili ad una terapia” e “i nati dopo il 1950 in quanto la prevalenza è molto bassa a meno di appartenere a specifici gruppi a rischio”. I gruppi a rischio individuati dalla consensus erano:

  • soggetti che fanno o hanno fatto uso di stupefacenti per via endovenosa;
  • emodializzati;
  • soggetti che hanno ricevuto emotrasfusioni o trapianti d’organo prima del 1992;
  • soggetti che hanno ricevuto fattori della coagulazione emoderivati prima del 1987;
  • soggetti attualmente conviventi o che abbiano convissuto con individui con infezione da HCV;
  • soggetti con attività sessuale promiscua che presentano una storia di malattie sessualmente trasmesse. 

Recentemente sono stati registrati dall’Agenzia Europea per i Farmaci (EMEA) e da quella italiana successivamente due nuovi farmaci (boceprevin e teleprevin) la cui efficacia raggiunge il 70%. 

Alla luce di questi progressi terapeutici e del fatto che la prevalenza nella coorte di nati dal 1945 al 1965 è di circa il 3%, il Centro di Controllo delle Malattie (CDC) degli Stati Uniti raccomanda l’esecuzione di almeno una volta del test ai soggetti nati nel periodo sopra specificato. Al pari degli USA, la prevalenza di anti-HCV anche in Italia è elevata nelle età avanzate  (3% ed oltre) con la differenza che le coorti di nascita a prevalenza maggiore sono quelle nate prima degli anni 50. Ne potrebbe quindi conseguire  di offrire il test per HCV non solo ai gruppi a rischio ma anche ai nati prima del 1950.

A questo punto vanno fatte le seguenti considerazioni:

1. la probabilità di comorbidità è tanto più elevata quanto maggiore è l’età con conseguente aumento della non efficacia della terapia;

2. l’efficacia della terapia con l’associazione del terzo farmaco è stimata nei trial complessivamente del 70% ma va tenuto presente che nella pratica tale proporzione può scendere mediamente di circa il 15-20%.

Infine va detto per chiarezza che l’equivalenza risposta al farmaco/ miglioramento della sopravvivenza, si basa su studi osservazionali che possono contenere dei bias di selezione nei gruppi che vengono confrontati.

Poiché un trial che testi l’efficacia della terapia avendo come outcome primario la mortalità è impossibile tecnicamente e dal punto di vista etico,alla luce dei possibili miglioramenti del decorso clinico della malattia a seguito della terapia, il test per anti-HCV può essere offerto ai soggetti che hanno una maggiore probabilità di essere positivi per età o per positività anamnestica ad uno dei fattori di rischio precedentemente segnalati purchè candidabili alla terapia. L’offerta va però accompagnata da un’articolata informazione sui benefici ed i limiti della terapia e da una una raccolta di dati dei pazienti trattati al fine di ottenere più informazioni sulla efficacia reale della terapia.

Bibliografia:

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La terapia anti epatite C con i nuovi farmaci antivirali

Tempo di lettura: 7 mins

Negli ultimi anni sono stati fatti grandi progressi nel trattamento dei pazienti con epatite C cronica, in particolar modo nei pazienti con infezione da HCV genotipo 1.

La strategia terapeutica corrente prevede l’impiego di interferone pegilato (PEG-IFN alfa 2a o 2b) e la ribavirina (RBV). La conoscenza progressivamente più approfondita del ciclo replicativo del virus dell’epatite C (HCV) ha permesso l’identificazione di alcuni target biologici verso i quali sono stati sviluppati farmaci con azione antivirale diretta: Telaprevir e Boceprevir. Entambi sono inibitori non strutturali della serino-proteasi (NS3/4) del virus dell’epatite C e sono i primi antivirali diretti (DAA) approvati per il trattamento dell’epatite C cronica sia in America che in Europa. La triplice terapia antivirale determina un incremento significativo della percentuale di risposta virologica sostenuta (SVR) sia nel paziente mai precedentemente trattato che nel paziente non responsivo al trattamento antivirale standard (relapser e non responder) con la possibilità, in alcuni casi, di ridurre la durata della terapia. Ciò permetterà, nei prossimi anni, di offrire valide opzioni terapeutiche ad un maggior numero di pazienti.

La terapia con Telaprevir prevede la somministrazione del farmaco sperimentale durante le prime 12 settimane di trattamento, per poi completare il ciclo terapeutico con 12 o 36 settimane di duplice terapia con interferone pegilato e ribavirina a seconda dei tempi di negativizzazione dell’HCVRNA. In particolar modo i pazienti che risultano HCVRNA negativi sia alla quarta che alla dodicesima settimana di trattamento antivirale possono effettuare una terapia della durata complessiva di 24 settimane. Se la negativizzazioe di HCV-RNA è invece meno veloce, oppure il paziente ha fallito un precedente ciclo terapeutico o è affetto da cirrosi epatica, sono necessarie 48 settimane di terapia complessiva.
La terapia con Boceprevir inizia dopo 4 settimane di duplice terapia con PEG-IFN e ribavirina (fase di lead-in) e prosegue poi con la triplice combinazione. La durata della somministrazione dei tre farmaci è guidata ancora una volta dal tempo di negativizzazione dell’HCVRNA, e varia da 28 a 36 o 48 settimane a seconda dei livelli di HCVRNA ottenuti dopo 8 e 24 settimane di trattamento. La fase di lead-in è una strategia terapeutica molto interessante che permette di individuare una categoria di pazienti con grande sensibilità alla terapia convenzionale che, rggiungendo la negativizzazione già alla quarta settimana - la cosiddetta risposta virologica rapida (RVR) - non hanno bisogno del terzo farmaco.

E’ importante sottolineare che nei pazienti con un precedente fallimento terapeutico che hanno presentato una riduzione dei livelli di HCVRNA inferiore ad un logaritmo nei primi tre mesi del precedente ciclo terapeutico (null responder) non ottengono un grande beneficio dal ritrattamento con telaprevir e boceprevir, dal momento che le percentuali di guarigione sono del 30% circa.  Inoltre in presenza di cirrosi epatica la probabilità di guarigione si riduce ulteriormente fino al 15% circa. In questa tipologia di pazienti risulta inoltre elevato il rischio di sviluppare resistenze, dal momento che la scarsa responsività alla terapia interferonica trasforma la triplice terapia in una monoterapia funzionale con il solo farmaco antivirale e che questi farmaci di prima generazione hanno una barriera genetica non elevata.

Attualmente i potenziali candidati per la triplice terapia con boceprevir o telaprevir in associazione con interferone e ribavirina, che rappresentno tuttora la colonna portante della terapia antivirale, sono i pazienti con epatite cronica C, genotipo 1. Si tratta di una terapia gravata da un certo numero di effetti collaterali rispetto alla terapia standard, che richiede uno sforzo assistenziale da parte dei centri che le dispensano e impone una accurata selezione dei pazienti in modo da identificare quelli che ne hanno urgenza e che ne  trarranno beneficio. Ad esempio, esiste una tipologia di pazienti con un determinato profilo genetico - il cosiddetto genotipo CC legato al polimorfismo del gene dell’IL28B - i quali non hanno bisogno del terzo farmaco per ottenere la guarigione in quanto  possiedono una naturale suscettibilità al trattamento antivirale e sono pertanto in grado di ottenere percentuali di risposta virologica sostenuta con la terapia standard paragonabili a quella ottenibili con la triplice terapia. Quindi, una accurata e razionale selezione dei pazienti è di fondamentale importanza nella gestione della terapia dell’epatite C cronica al fine di assicurarne una forte costo-efficacia.

Nell’era dei farmaci con azione antivirale diretta, il medico possiede anche un altro compito: quello di enfatizzare l’importanza dell’aderenza al trattamento antivirale, dal momento che ci troveremo a fronteggiare il problema delle resistenze virali. Il telaprevir è formulato come capsule da 375 mg e il dosaggio terapeutico è di 2 capsule 3 volte al giorno (ogni 8 ore) da assumere con un pasto ricco di grassi, il boceprevir è formulato come capsule da 200 mg e il dosaggio terapeutico è di 4 capsule 3 volte al giorno (ogni 8 ore) da assumere con il cibo. Entrambi i farmaci devono essere assunti assieme ad interferone e ribavirina. E' fondamentale che il paziente sia adeguatamente istruito e comprenda l'importanza cardinale di assumere regolarmente e nei modi prescritti il farmaco antivirale. Se questo non avviene, il virus è capace di sviluppare rapidamente una resistenza, la cui comparsa compromette irrimediabilmente sia l’efficacia del  farmaco che si sta assumendo, sia di quelli appartenenti alla stessa classe, che possiedono lo stesso meccanismo d’azione. Si fa strada dunque il concetto di "aderenza" assoluta alla terapia - ben conosciuta in campo di terapia antibiotica e anti-virale - ma che compare per la prima volta nel trattamento dell'epatite C. 

La terapia con i nuovi farmaci antivirali non potrà prescindere da un’attenta valutazione delle possibili interazioni farmacologiche. Telaprevir e boceprevir sono entrambi metabolizzati dal citocromo P450, come numerosi farmaci comunemente utilizzati dai nostri pazienti. Entrambi i farmaci inoltre inibiscono o fungono da substrati della glicoproteina p. L’assunzione di Telaprevir o Boceprevir può alterare la concentrazione plasmatica di farmaci metabolizzati mediante le suddette vie metaboliche, viceversa la loro stessa concentrazione può risultare alterata modificandone l’efficacia ed incrementandone la tossicità. E’ importante sottolineare che la stessa terapia ormonale anticoncezionale nelle donne in terapia con Telaprevir o Boceprevir potrebbe risultare inefficace e non può essere pertanto considerata un adeguato metodo contraccettivo durante la terapia anti-epatite C. Nella gestione di queste terapie un utilissimo supporto viene fornito dalle informazioni presenti on-line (si può consultare, a tal proposito i siti: www.hcvadvocate.org e www.hep-druginteractions.org) che sono costantemente aggiornate.

Un’adeguata conoscenza degli effetti collaterali di telaprevir e boceprevir da parte del medico ed un’adeguata informazione del paziente sono elementi fondamentali nella gestione delle nuove terapie antivirali, al fine di prevenire o di gestire adeguatamente eventuali eventi avversi. Gli effetti collaterali più frequenti durante la terapia con telaprevir sono: rash cutaneo (56%), anemia (36%), diarrea (36%), irritazione anorettale (29%) e nausea (29%). Tra i suddetti effetti collaterali bisogna prestare molta attenzione alla comparsa di rash cutaneo. E' indispensabile stabilire tempestivamente il grado di severità del rash stimandone la gravità e l'estensione  e prescrivere un’adeguata terapia sintomatica o - se necessario - interrompere la terapia con telaprevir o tutta la terapia nei pazienti che presentano un rash severo o grave. Gli effetti collaterali frequentemente riscontrati durante la terapia con boceprevir sono: l’anemia (48%-50%) e la disgeusia (35%-44%). Un controllo frequente dei valori emocromocitometrici è dunque indispensabile durante la terapia con questi antivirali, in particolar modo durante i primi mesi di trattamento.

In conclusione, grazie all'avvento di terapie innovative di grande efficacia, l'orizzonte terapeutico si estende per i malati di epatite C ma la complessità terapeutica e gestionale per il medico ne risulta aumentata. Sarà fondamentale assicurare ai pazienti una assistenza continua, un counseling assiduo e arricchito di competenze nuove, quali ad esempio il dermatologo, per accompagnarli in sicurezza durante tutto il percorso terapuetico.

di Gloria Talliani e Elisa Biliotti

Bibliografia:

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